La Turchia? Ormai è una dittatura islamista. Il golpe? L’equivalente dell’incendio del Reichstag, un pretesto per colpire l’opposizione laica, terrorizzarla. Il presidente Erdogan? Sempre più forte, il Sultano islamico. A un mese esatto dal tentativo di colpo di stato se c’è una cosa chiara, tra le tante ancora oscure, è che quel che abbiamo letto finora sui giornali non corrisponde a verità. La Turchia non sta diventando più islamica di quanto fosse prima, Erdogan e l’opposizione laica non sono mai stati in rapporti meno tesi. Insieme hanno attribuito la responsabilità del golpe a un’organizzazione islamica un tempo alleata del presidente, l’Hikmet del maestro sufi Fetullah Gulen, che vive negli Stati Uniti.
Le riforme con i kemalisti
Erdogan ha chiesto perdono in tv per aver dato fiducia a Gulen e ha dovuto accettare quanto prima rifiutava: cioè concordare le riforme costituzionali con i due partitoni storici del kemalismo (il Chp, nazional-socialdemocratico, fondato da Ataturk, e il Mhp, destra nazionalista). Col che anche la tesi del golpe fasullo, della messinscena allestita per instaurare una tirannide, finisce definitivamente nell’archivio ‘Mamma li turchi!’. I kemalisti sembrano abbastanza soddisfatti per la piega che prendono gli eventi. La loro stampa pullula di commenti sulla falsariga “ho sempre scritto peste e corna di Erdogan e tuttora non me ne fido, però il presidente sembra aver finalmente capito che neppure la maggioranza assoluta in parlamento gli consente di fare quel che vuole”. Molto più raro leggere proteste per licenziamenti e sospensioni cautelari dalle funzioni (in tutto 81mila), che inquirenti e amministrazioni pubbliche hanno abbattuto su insegnanti (quasi un terzo dei docenti universitari), magistrati, poliziotti, alti gradi militari (il 44% dei generali e degli ammiragli; dei 5700 arrestati i nove decimi sono militari).
Tanta furia ha sgomentato perfino eminenze del Akp, il partito di Erdogan: “Sta diventando una caccia alle streghe”, lamenta il vicepremier Tugrul Turkes (Akp), per il quale ormai si chiama in causa Hizmet anche se ti ammaccano l’auto. Ma allora perché l’opposizione kemalista non denuncia questa mostruosa epurazione? La domanda è cruciale, le risposte sono diverse. Per cominciare, la grande ’purga’ colpisce soprattutto gli islamici affiliati a Fetullah Gulen, e non tocca la militanza kemalista se non di striscio, tra i simpatizzanti che sarebbe in qualche modo in contatto con Hizmet. In secondo luogo i kemalisti sono tra gli epuratori, sia perché contano di spartirsi i posti degli epurati, sia perché Gulen non piace al kemalismo: per la sinistra è un islamico, per il conservatorismo sunnita un eretico (in quanto sufi), e per tutti è l’uomo della Cia e il capo di uno Stato nello Stato, di un ‘Fetullistan’ che avrebbe infiltrato ogni istituzione.
Infine, l’opposizione kemalista sa che le indagini sul putsch potrebbero investire proprio il partito di Erdogan. È un caso se il generale che ha dato il via al golpe è il fratello del vicepresidente dell’Akp? Se proprio parlamentari di Akp ammettono che è tra loro che vanno cercati i complici politici dei golpisti? Dopotutto il successo del partito musulmano in parte è stato costruito proprio sulla joint-venture tra la piccola borghesia, di cui Erdogan è l’eroe, e la borghesia di Stato affiliata alla Hizmet di Gulen (affiliata in segreto, all’inizio per non essere punita dai vertici kemalisti). Il sodalizio durò oltre un decennio. Finì due anni fa, quando Erdogan attribuì ad Hizmet l’intenzione di scalzarlo per via giudiziaria. Da quel momento i due gruppi di potere si affrontarono in uno scontro interno allo Stato. Secondo la lettura univoca della stampa turca, quando i ‘gulenisti’ capirono che Erdogan stava per disarmarli con l’epurazione di quadri delle Forze armate prevista per la fine di luglio, decisero di tentare il tutto-per-tutto.
Prove inconsistenti sul predicatore
Il colpo di stato doveva scattare prima dell’alba del 16 luglio, ma le spie di Erdogan intuirono quel che si stava preparando. Questo costrinse i congiurati ad anticipare il golpe di sei ore, con esiti però disastrosi per i putschisti. Se sia o no fondata la tesi del ‘golpe sufi’ lo dirà il procedimento per l’estradizione di Gulen richiesta da Ankara agli Stati Uniti. Le prove d’accusa fin qui apparse sulla stampa paiono inconsistenti. Se è probabile che Hizmet abbia costituito una poderosa rete di influenza nelle amministrazioni pubbliche, soprattutto magistratura e polizia, questo non implica un suo coinvolgimento nel golpe. In ogni caso è verosimile che nel putsch siano confluiti differenti segmenti di stato avversi ad Erdogan. Negarlo aiuta a nascondere il problema vero, la crisi dello stato kemalista. Kemal Ataturk ebbe straordinari meriti ma la sua Turchia già a quel tempo appariva al filosofo della politica Arnold Toynbee quanto di più prossimo allo stato etico hegeliano, geloso di ogni diversità e perciò remoto da quel che dovrebbe essere uno stato di diritto liberale.
Avvicinandosi all’Unione europea la Turchia ha mitigato solo in parte questo suo tratto originario, negli ultimi anni rielaborato dal conservatorismo musulmano. Ne rimangono tracce sia nell’astioso rapporto con le minoranze, sia nella scarsa credibilità della magistratura. In fondo la lotta di potere conclusa con il fallito golpe era cominciata nelle aule di giustizia: nel 2012 processi per eversione decapitano le Forze armate; nel 2014 i 300 alti ufficiali condannati vengono assolti e i loro accusatori diventano accusati. Quella vicenda opaca avvia lo scontro che spaccherà trasversalmente Forze armate, magistratura, polizia, tra cordate filo-Erdogan e cordate anti. Beninteso, in Europa non mancano gli stati di diritto in crisi. Ma quando la crisi produce un golpe, certo non è additando capri espiatori che un Paese può diventare stabile e forte.