La campagna di Beatrice Lorenzin per aumentare la consapevolezza dell’importanza del fattore tempo nella fertilità delle donne potrebbe essere alla fine un’iniziativa più sensata delle critiche che le sono piovute addosso. Sarà perché Matteo Renzi alla velocità della luce – appena ha visto l’ondata di commenti negativi che montava sui social – ha subito scaricato il suo ministro, ma a me il Fertility day organizzato per il 22 settembre sembra un’idea naïf per gli strumenti adottati, ma in fondo giusta nelle motivazioni.
L’Italia è un paese in profonda crisi demografica prima ancora che economica. Nel 2015 è stato battuto ogni record negativo con la nascita di soli 485 mila bambini. Nel 2005 erano 554 mila. L’età media della prima gravidanza per le nostre mamme è 31 anni. A tenere su le cifre delle nascite per molti anni sono state le mamme straniere. Nel Nord Italia, fino a qualche anno fa, un bambino su cinque era figlio di una straniera. Un fenomeno simile c’era stato con le donne del Sud che compensavano il tasso di riproduzione più basso di quelle del Nord. Ora le parti si sono invertite. Sono cifre che dovrebbero essere al centro del dibattito politico e che invece sono oggetto di un processo di rimozione collettiva. Il ministro Lorenzin è stata costretta a una mezza marcia indietro dopo le critiche durissime giunte da personaggi diversi come Roberto Saviano o Andrea Scanzi non perché milita nel Ncd di Angelino Alfano (con contorno di fratello assunto alle Poste a 200 mila euro all’anno), ma perché ha osato ricordare con un cartellone un fatto vero: oltre una certa età il tasso di fertilità crolla. Sono due le critiche principali piovute addosso al ministro.
La prima è che le donne conoscono perfettamente il loro orologio biologico e non hanno bisogno di una clessidra sul pancione per ricordarsi di fare un figlio. In realtà ci sono studi che dimostrano che le donne più giovani non hanno una chiara consapevolezza dei loro limiti biologici. Si può discutere sulle modalità del Fertility day ma non sulla sensatezza dei suoi fini. In Danimarca una campagna televisiva sollecitava le coppie a compiere la sera stessa il loro dovere, sottolineando il piacere connesso all’adempimento. Le coppie danesi conoscevano da sole, si spera, gli effetti collaterali del concepimento, ma lo spot ha avuto un effetto positivo. Chi avrebbe mai immaginato che sarebbero nati 1200 bambini quest’estate a seguito dello spot? La seconda critica è: non serve lo spot, ma gli asili nido e la tutela del posto per le precarie che tornano da una gravidanza. Tutto giusto. Ma si tratta di problemi coesistenti e non sempre coincidenti. Se ci fossero più asili nido ci sarebbero più figli. Ma ciò non toglie che se ci fosse un altro clima culturale, pur con lo stesso numero di asili e con l’attuale crisi economica, ci sarebbero ancora più figli.
I trentenni di oggi sono bombardati da messaggi pubblicitari mirati a sollecitare i consumi tipici del target più appetibile per le aziende commerciali: i Dinks, cioè double income no kids. Decine di spot, show, fiction e film sottolineano i piaceri dell’essere single o al massimo coppia senza figli e pensieri. Quanti messaggi spingono oggi i giovani a correre a sera verso l’aperitivo piu chic e quanti ieri li spingevano verso una casa dove c’erano da cambiare sette pannolini al giorno? Sul barcone giunto in Sicilia pochi giorni fa c’erano decine di donne in gravidanza, erano disperate ma non avevano rinunciato a sperare di avere un figlio. La condizione economica è un freno alle nascite ma è più importante la cultura mainstream. Forse questo tipo di ragionamento potrebbe avere indotto una neo mamma di 43 anni (di due gemelli) a varare il discutibile e discusso spot con la clessidra. Tra tanti messaggi che invitano a consumare tutta la vita per se stessi, uno spot, magari fatto male, che invita a procreare in fretta una vita, che danno può fare?