Ieri la giunta Raggi, dopo meno di due mesi di vita, ha subìto un colpo durissimo. Non tanto per l’uscita della capo di gabinetto, la giudice Carla Raineri, del vecchio ad di Atac e del nuovo ad di Ama, piuttosto facili da rimpiazzare. Quanto per le dimissioni del superassessore al Bilancio e alle Partecipate Marcello Minenna, uomo forte della squadra e tecnico molto competente e ingombrante. Questo colpo potrebbe condannare la giunta a una fine immediata o, peggio, a una lenta agonia. Ma potrebbe anche ricompattarla in vista di un rapido rilancio. Dipende dalle scelte che faranno Virginia Raggi e il suo staff, ma soprattutto dalla coesione e dalla maturità che saprà eventualmente dimostrare il M5S, finora ridotto – almeno a Roma – a un miserevole infantilismo da Asilo Mariuccia: dossier, pettegolezzi, chiacchiericci da bar sport anzi da social network, polemicuzze cacofoniche perlopiù sul nulla (i “compensi d’oro” che, per tutte le nomine, assommano per ora a meno 1 milione, contro i 5 di Marino e i 6 di Alemanno), ripicche e giochetti correntizi, batracomiomachie da vecchia partitocrazia. Come se non si trattasse della capitale d’Italia, ma di un paesino di campagna. Come se il M5S non si giocasse lì tutte le chance per accreditarsi come forza di governo. Come se non fosse noto che i poteri marci – politici, affaristici ed editoriali – hanno puntato il massimo della posta sul fallimento pentastellato a Roma per rimettere le grinfie sulla mangiatoia.
La Raggi, dopo il plebiscito che l’ha issata sul pennone del Campidoglio, ha commesso tre errori. 1) Per assicurarsi la presenza prestigiosa di Minenna, voluto dal Direttorio, gli ha concesso troppe deleghe, facendone un simil-sindaco che sbilanciava gli equilibri di giunta e acuiva l’insofferenza della base per un tecnico esterno ed estraneo al M5S; e gli ha pure lasciato scegliere l’ad di Ama e la capo-gabinetto, che rispondevano più a lui che a lei (una specie di giunta parallela), infatti ieri sono usciti in corteo come gemelli siamesi. 2) Ha cincischiato troppo sulle nomine, annunciandone una al giorno ed esponendosi allo stillicidio quotidiano degli attacchi esterni e interni, il che non sarebbe accaduto (o si sarebbe concentrato in pochi giorni) procedendo con tutto il blocco una volta per tutte. 3) Ha tollerato i troppi galli nel pollaio, senza pretendere il rispetto da chi dovrebbe stare dalla sua parte e senza allontanare la Raineri dopo le imbarazzanti interviste, da genio incompreso, rilasciate per difendere il suo pur legittimo stipendio.
Sulla qualità della giunta, invece, c’è poco da obiettare: la squadra resta di buon livello, con punte di eccellenza (Bergamo alla Cultura, Berdini all’Urbanistica) e una generale indipendenza dal M5S. Nulla da ridire nemmeno sull’inevitabile rispetto del parere dell’Anac di Cantone, che ha giudicato illegittimo il contratto della Raineri e ne imponeva uno diverso (ma meno vantaggioso). Gli errori più clamorosi li han commessi i vertici e la base, non solo romani, del Movimento, circondando la sindaca di direttorii, direttoriucci e direttorietti dove il primo che si alza la mattina mette becco dappertutto e twitta tutto, anche i mal di pancia. Una manna per i giornaloni, che non vedono l’ora di incunearsi tra le divisioni pentastellate per allargarle e amplificarle, titolando ogni giorno sulla “guerra”, il “caos”, la “rivolta”, la “bufera” in Campidoglio e sparacchiando su tutti gli uomini più vicini alla Raggi per indebolirla. Il risultato è lo spettacolo inverecondo da “Prova d’orchestra” felliniana di questi due mesi, che ha finito per oscurare i pochi, ma buoni risultati già ottenuti: dal superamento della prima emergenza rifiuti ai primi risparmi su sprechi milionari.
Intanto, nel silenzio generale, il sindaco Pd di Milano Beppe Sala perdeva i pezzi molto prima della Raggi, e per motivi ben più scandalosi: indagato per aver nascosto varie proprietà, nominava assessore (proprio al Bilancio) il suo socio in affari e capo di gabinetto il factotum della sua campagna elettorale, spendeva in nomine molto più della Raggi ed era costretto a revocare dopo 5 giorni il suo segretario generale, Antonella Petrocelli, imputata per turbativa d’asta. Nemmeno un articolo di giornale (Fatto a parte) né un titolo di tg. Ma questo era prevedibile. Così come gli attacchi alla giunta Raggi (vedi la campagna d’estate contro l’assessore all’Ambiente Paola Muraro), puramente estorsivi e ricattatorii: parlavano di rifiuti ma pensavano alle Olimpiadi, colpivano la nuora perché la suocera intendesse. Sarebbe bastato che la Raggi rinnegasse la sua campagna elettorale contro Roma 2024, cedendo alle pressioni ai limiti del Codice penale cui molti esponenti di giunta e Consiglio sono stati e sono sottoposti, perché il corpo della Muraro venisse restituito intatto dalla grande stampa e dagli affaristi retrostanti. Ma questo i 5Stelle lo sapevano fin da prima delle elezioni e avrebbero dovuto prepararsi per tempo.
Oggi, anziché prendersela coi prevedibili nemici esterni, dovrebbero riunirsi in conclave con Beppe Grillo, recitare il mea culpa e dirsi in faccia che intendono fare da oggi in poi. Se vogliono aiutare la Raggi a rilanciare la giunta, si cuciano la bocca, si tengano per sé i buoni consigli tipici di chi ha finito i cattivi esempi e lascino governare chi è stato eletto per farlo. Se invece intendono continuare a logorare la loro giunta, a lanciare sassate contro la loro vetrina, a segare il ramo su cui sono seduti, lo dicano subito e sfiducino la Raggi, confessando di non essere pronti a governare Roma e dunque, a maggior ragione, l’Italia. In questo caso, tutti a casa. Ma per sempre.