L’ “Affaire Moro” di Leonardo Sciascia è un libro magistrale che tratta di un delitto commesso materialmente dalle Br ma in un contesto pubblico assolutamente favorevole e complice: l’ipocrisia di Stato. L’opera è del 1978 – scritta alcuni mesi dopo il rapimento e l’uccisione del leader democristiano – e a quasi quarant’anni di distanza può ancora essere letta come il più aggiornato trattato letterario sul nostro costume politico (in stretta connessione con Leopardi e Pasolini) e quindi sulla nostra malattia nazionale: quella che riesce sempre a nascondere dietro le migliori intenzioni i peggiori delitti.
Leggiamone un passo illuminante: “Da un secolo, da più che un secolo, lo Stato italiano convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi (…) Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate Rosse, lo Stato Italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità? Nessuno deve avere dubbio: e tanto meno Moro, nella ‘prigione del popolo’”.
Il caso Moro rappresenta l’archetipo dell’italica doppiezza: piangere calde lacrime sulla sorte dell’ostaggio ma non muovere un dito per salvarlo in nome di una presunta fermezza. E tutto questo accompagnato dalla consueta grancassa della cosiddetta grande informazione (basta rileggere le pagine dello scrittore siciliano sulla retorica di certi titoli inesorabili con la pelle degli altri, tipo: “Il Paese accetta la sfida”). Nello stesso tempo, il caso Moro suscita una domanda che riguarda la vittima stessa. Aldo Moro fu anch’egli partecipe di quella ipocrisia collettiva, fu protagonista di due vite opposte e speculari? E se, poniamo, lo “statista”, il leader di partito, il cattedratico, insomma l’uomo di potere (di un potere probabilmente non così vasto ma percepito come tale) non fosse stato costretto dalla violenza terrorista a riflettere, solo e disperato durante quei lunghissimi 55 giorni, sull’Aldo Moro privato e sull’Aldo Moro politico, dunque l’ Aldo Moro nella sua interezza avrebbe mai scritto su se stesso e sugli uomini del suo partito e del “suo” governo (ma anche sul Vaticano e su Paolo VI) quelle famose lettere, quelle spietate parole di verità che subito fecero dire all’ipocrisia di Stato, alla retorica dei giornali e alla menzogna nazionale: no, non è l’uomo che conosciamo, quelle missive “non sono moralmente a lui ascrivibili”?
Ho conosciuto Aldo Moro da vicino, nel senso che da cronista dell’Ansa a palazzo Chigi ero costretto quotidianamente a segnalare con brevi flash l’ingresso e l’uscita dell’allora presidente del Consiglio dalla sede del governo. E non potrei, naturalmente, aggiungere una sola virgola al ritratto visivo che ne fa Sciascia: “A vederlo sullo schermo della televisione, Moro sembrava preda della più antica stanchezza, della più profonda noia. Soltanto a tratti, tra occhi e labbra, s’intravedeva un lampeggiare d’ironia e di disprezzo: ma subito appannato da quella stanchezza, da quella noia”. Si diceva che quell’espressione di infinito tedio nascondesse una furbizia molto democristiana e molto meridionale, una sorta di strategia del ragno finalizzata a stancare e sfiancare i riottosi e petulanti alleati di governo socialisti e laici (era l’epoca del primo centrosinistra).
Per questo l’uomo di Maglie (così lo chiamavano i non pochi nemici) preferiva convocare il consiglio dei Ministri la sera a ora tarda, riunioni che in caso di provvedimenti contrastati poteva slittare fino all’alba. Si diceva poi che a causa della pressione bassa il primo ministro acquistasse vigore nelle ore notturne quando agli altri si socchiudevano le palpebre. A me (e forse non solo a me) quell’uomo eternamente ingessato nel doppiopetto grigio (che non toglieva neppure l’estate sulla spiaggia di Terracina dove qualche rara foto lo ritrae con la numerosa famiglia) dava come un’impressione di infelicità repressa. Possibile che non avesse desideri, passioni, che pur assorbito dai doveri istituzionali non si concedesse qualche innocente distrazione? L’ascolto di una canzone, la visione di un film, la lettura di un romanzo?
Di queste innocenti evasioni qualcosa trapelò dal memoriale ritrovato dagli uomini del generale Dalla Chiesa nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano. Dove Moro racconta, per esempio, di certe sue fughe al cinema e in particolare di un pellicola che lo aveva fatto riflettere sulla mutazione antropologica della Dc, dopo che aveva visto con una certa curiosità (poche settimane prima di via Fani) “Forza Italia”, il film satirico di Roberto Faenza, che all’uscita nelle sale era stato messo all’indice con somma indignazione dagli uomini di piazza del Gesù.
Mi piace pensare che forse, profondamente intriso da un permanente senso di colpa, marchio di fabbrica di un certo cattolicesimo, Moro sia alla fine riuscito a liberarsi dall’ingessatura del doppiopetto e dall’armatura interiore chiamata da preti e moralisti senso del dovere. E ciò proprio nel momento in cui più acuta si era fatta la costrizione materiale imposta dai suoi carcerieri e più cocente la delusione per il comportamento cinico e ipocrita dei suoi ex compagni di partito. La stessa ipocrisia che dopo la sua morte inabissò la Dc incapace di raccontare la verità su Tangentopoli (“il mio sangue ricadrà su di voi”). La stessa ipocrisia di Stato che oggi ammanta con la falsa parola cambiamento lo stravolgimento, per esempio, della Costituzione. Ma questa è un’altra storia.