Quattro miliardi di euro. È la cifra messa a preventivo dal presidente del Consiglio per riparare i danni del terremoto che ha colpito Amatrice e i Comuni vicini. Ed è una cifra, avverte Renzi, anche sottostimata. A meno che il presidente non voglia fare di quei paesini di montagna delle piccole Miami, trasportandovi anche mare e spiaggia, e magari fare soggiornare i suoi abitanti in villone dai rubinetti d’oro, la cifra appare a occhio nudo eccessiva, smodata, incongruente rispetto all’evidenza della realtà. Come ha scritto ieri Enrico Fierro, il primo dei problemi, e il primo test per Vasco Errani, il commissario alla ricostruzione, è quello di delimitare con esattezza i confini del danno per evitare ciò che accade sistematicamente nel periodo della ricostruzione: il continuo gonfiamento della spesa.
Ogni terremoto infatti porta con sé, come dono speciale, una truppa di affaristi che trova nel dramma l’occasione per spiluccare ben bene. L’affare si compie se il danno si gonfia. E come si gonfia? Allargando il territorio colpito, trasformando piccole lesioni in grandi ferite, adeguando all’insù i criteri per la stabilità sismica, avanzando continuamente nel bisogno. Ad oggi sono tre i Comuni dell’epicentro, completamente distrutti: Amatrice, Arquata del Tronto e Accumoli. I residenti dei tre Comuni non raggiungono, per fortuna, i cinquemila abitanti. C’è poi una corona di centri in cui il terremoto ha danneggiato più o meno seriamente alcuni edifici (e parecchie seconde case), un’area vasta ma nella quale insiste una popolazione non superiore ai cinquantamila abitanti.
Lo sperpero de L’Aquila, città di 70 mila residenti a cui oggi non bastano 10 miliardi di euro per vedersi ricostruita, è così vicino e documentato, così tragicamente evidente che bisognerebbe far tesoro degli effetti nefasti dei fuochi d’artificio berlusconiani. Evitare il bis è – prima ancora che una virtù – una necessità.