“Cosa si può fare per prepararsi e adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici?”. È una delle domande che campeggia sul sito del Climate CoLab, uno dei dipartimenti del Mit, la più prestigiosa università tecnologica del mondo. Per contribuire a risolvere il rebus, non serve la laurea. Basta password e user name. Al Mit, infatti, sono convinti che i grandi problemi dell’umanità non si risolvono chiudendo in una stanza le menti più brillanti. Nel tempio della scienza, per salvare il pianeta, si chiede aiuto agli internauti; gli “webeti”, direbbe Enrico Mentana. Anche la Nasa ha lanciato un appello in rete. Per classificare i crateri su Marte, l’agenzia spaziale ha messo online le scansioni del pianeta chiedendo agli utenti di identificarli.
All’università di Cambridge, nel Massachussets, puntano tutto sulle soluzioni frutto dell’intelligenza collettiva. Il principio lo ha definito il filosofo francese Pierre Levy: “Nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa”. Un esempio? Il Sunsaluter, della canadese Eden Full, consente di produrre energia solare e acqua potabile a costi irrisori. Perciò si è diffuso a macchia d’olio in tutti i continenti. Peter Thiel, finanziere d’assalto che ha contribuito al lancio di Facebook, sul Sunsaluter ha puntato un chip da 100 mila dollari. Nel 2015, al Climate CoLab, l’idea di Eden Full si è aggiudicata il primo premio da 10 mila dollari. Il trofeo, nel 2013, è andato a HEAT, un’applicazione che verifica il consumo energetico delle abitazioni; indica gli sprechi, quanto costano in bolletta e offre consigli per l’efficienza. Così, le persone tutelano il portafogli mentre difendono l’ambiente. Ciascuno può confrontare i suoi consumi con quelli dei vicini, innescando una gara virtuosa al risparmio energetico.
Al Climate CoLab nessuno condivide selfie, gattini o piatti da gourmet. Se siete in cerca di zuffe digitali, restate sui social. “Le persone offrono collaborazione e suggerimenti, sostengono le idee migliori, mai visto risse”, raccontano Guido Scaccabarozzi e Francesca Allievi, ingegneri ambientali. Due anni fa hanno partecipato al Climate CoLab col progetto ArBio, “Associazione per la resilienza del bosco”. Lo scopo è impedire il diboscamento delle foreste; l’idea è sostituire le monocolture col metodo agricolo della foresteria analoga, coltivando fino a venti piante diverse. Così i boschi si conservano integri, creando opportunità economiche per i suoi abitanti. Oggi Arbio gestisce 916 ettari di foresta amazzonica in Perù. “A volte le idee migliori si fondano su principi primitivi”, dicono Guido e Francesca. “Il concetto è usare la rete per raccogliere tutte quelle che possiamo – spiega Robert Laubacher, ricercatore e Direttore esecutivo del Center for Collective Intelligence del Mit – Coinvolgendo persone diverse, esperte o meno, siamo molto più creativi”. Il Climate CoLab è una piazza aperta, ma con metodo.
Prima regola: scomporre un problema complesso in quesiti più semplici. Impossibile trovare la panacea per il cambiamento del clima. La soluzione si avvicina se la domanda è: “In che modo la tecnologia può accelerare il passaggio verso le città a zero emissioni di carbonio?”. È solo una delle 17 gare di quest’anno.
Seconda regola: le proposte sono valutate dagli esperti del Climate CoLab. Il percorso, fino alla consegna del primo premio da 10 mila dollari è lungo. I progetti devono seguire le linee guida dettate dagli studiosi del Mit. È l’università a selezionare i semifinalisti per ciascun gara, senza lesinare consigli e suggerimenti. Prima di accedere alla finale, gli autori possono correggere il progetto secondo le indicazioni degli esperti. Allora scatta il voto degli utenti registrati al sito, per decretare il vincitore della giuria popolare. Ma anche i professionisti del Climate CoLab scelgono il progetto che ritengono migliore. Così, ciascuna delle 17 gare, elegge due vincitori. A loro è riservato il privilegio di partecipare alla conferenza conclusiva per illustrare idee e proposte a una platea di addetti ai lavori: investitori, accademici, politici e professionisti. Tutti a caccia di soluzioni concrete. La migliore si aggiudica il premio in denaro. Gli altri guadagnano visibilità, esperienza, relazioni. Non vincono sempre i più esperti. “La nostra ricerca – spiega Robert Laubacher – dimostra che le persone con poca esperienza hanno le stesse probabilità di arrivare in finale degli specialisti”. Il laboratorio sembra un miracolo del web. Un’isola di collaborazione in un oceano di liti furiose, insulti impronunciabili e bufale virali. In verità, l’arcipelago della collaborazione è vasto, a cominciare da Wikipedia. “Un progetto stupefacente – ammette Laubacher –, realizzato da volontari senza gerarchie e denaro. Pochi ne apprezzano la portata”.
È il metodo Wikipedia ad aver ispirato il Climate CoLab. Malgrado i detrattori, uno studio di Nature del dicembre 2005 certifica l’affidabilità dell’enciclopedia online. Su 42 voci, 4 risultavano scorrette, al pari della prestigiosa Britannica. Col vantaggio che gli errori, su internet, sono stati corretti all’istante. Nel 2012, uno studio condotto dalla società Epic con la Oxford University conferma le conclusioni di Nature. Eppure internet non gode di buona stampa. Il sospetto è che in tanti confondano la rete con Facebook. “Sono d’accordo – ammette Laubacher –, i social network li usano tutti quotidianamente. Foldit, invece, lo conoscono solo nelle università”. Foldit è un videogioco dove bisogna combinare amminoacidi come in un puzzle. Lo scopo è ottenere proteine per combattere malattie croniche come Aids o cancro. Grazie a Foldit, progetto dell’università di Washington, è stata scoperta una proteina utile a curare l’Alzheimer. “Chiunque, anche i giocatori on line possono aiutare il progresso scientifico”, ammette James Bardwell, professore di biologia molecolare, cellulare e dello sviluppo all’Università del Michigan. I critici del web credono di essere dalla parte di Eco. Gli attribuiscono la frase su “gli imbecilli del web”. Peccato che non l’abbia mai detta. Devono averla letta su Facebook.