Ordine ai ministri e ai politici renziani di boicottare i programmi di La7. Per l’esattezza gli studi di Lilli Gruber, Corrado Formigli e Giovanni Floris. Ospiti che rifiutano l’invito o che prima annullano e poi confermano la partecipazione. Enrico Mentana, direttore del TgLa7, cosa succede fra Matteo Renzi e la vostra televisione?
Non saprei definire il rapporto, se rovinato o compromesso, di sicuro il presidente del Consiglio, martedì scorso, ha visto la trasmissione di Floris e non c’è stata una corrispondenza di amorosi sensi.
Come ha reagito il fiorentino?
Tuoni molto forti e fulmini vistosi contro La7, perché, forse, considera il pensiero renziano penalizzato, compresso fra voci politiche e giornalistiche avverse.
Una lamentela che riporta agli anni di Silvio Berlusconi.
Lo scenario è mutato e Renzi sconta in maniera oggettiva una carenza di organico per la televisione e un modello che spesso non gli è amico. Premessa: nessun politico in campagna elettorale può concedersi di non mandare i suoi in una rete televisiva, soprattutto se è quella più vocata al confronto politico. Ma specularmente, nessuna rete televisiva, e soprattutto quella più vocata al confronto politico, può fare a meno di una parte dello schieramento. Insomma, il vino bianco non può fare a meno della bottiglia e del bicchiere. Ma anche loro non possono permettersi di riempirsi solo di vino rosso.
Qui la critica è doppia: include le ossessioni di Renzi, non esclude le responsabilità di La7.
Mi spiego meglio, tento di illustrare le ragioni del premier. Perché siamo arrivati sull’orlo dell’incidente di frontiera? Per la vera asimmetria di questa battaglia, che non sta tanto nell’eterogeneo fronte del No, che vede affiancati D’Alema e Brunetta, Zagrebelsky e Salvini, Di Battista e Fini, contrapposto al Pd renziano con ben pochi compagnons de route. Ma nel ruolo attivo di molti nostri colleghi: pienamente legittimo, e però ingombrante.
Renzi si sente in minoranza in tv, e dunque in minoranza da Floris e colleghi?
I giornalisti-opinionisti non sono certo una novità nel panorama politico italiano. Con piena legittimità sono stati parte importante dello scontro in tv negli anni del berlusconismo. Si può dire anzi che – tanto per fare l’unico esempio di un discorso che non è giusto personalizzare – il confronto Belpietro-Travaglio sia stato il match rituale emblematico di quel lungo periodo. Ma come sappiamo i giornalisti in campo erano tanti, fieramente contrapposti. Oggi però quei due benemeriti insiemi si trovano a combattere la stessa battaglia contro un nemico comune. E Renzi da parte sua non ha saputo o potuto coinvolgere a sua volta nella battaglia per il Sì nessun opinionista già rodato da quelle battaglie epocali e rinoscibile dal cittadino-teleutente.
Quanto può durare il divieto renziano?
Lontani due mesi dalla data del referendum potevamo non dare rilievo agli effetti di questa asimmetria, ovvero al ruolo non neutro degli influencer invitati nelle nostre trasmissioni. Diciamo che l’arrabbiatura di Renzi è prematura, se non proprio preconcetta. D’ora in poi il problema però si pone, nel nostro interesse in rapporto ai telespettatori, non per mero rispetto della par condicio o per compiacere lo schieramento che ne ha meno. E questo si può ottenere – beninteso – senza censurare o lasciare a casa nessuno: basta tenere sul piede di parità gli argomenti del Sì e quelli del No. In sostanza: se parlano di referendum – come direbbe Grillo – uno vale uno, Benigni e Di Maio, la Boschi e Giordano. La par condicio ufficiale è al solito un’apoteosi di lacci e lacciuoli: la nostra, sostanziale, dovrebbe avere una sola regola, “alla fine del programma le tesi del Sì e quelle del No hanno avuto lo stesso rilievo e lo stesso tempo”.