Ore 15, casello autostradale di Orte, sessanta chilometri a nord di Roma. Antonio Manzini aspetta in piedi, ai bordi di un marciapiede, sommerso da autoarticolati, rumore, un po’ di polvere. Poco lontano una pattuglia della polizia monitora il monitorabile. Lui immobile aspetta, la sua Panda nera, ammaccata, è parcheggiata di lato. La destinazione è Livorno per un incontro con i lettori “ma non mi muovo spesso, quest’anno appena nove volte”. Com’è possibile? Lei è lo scrittore del momento, primo in classifica, una fiction su Rai2 dedicata ai suoi libri, a Rocco Schiavone, un romanzo appena uscito (Orfani bianchi, Chiarelettere), e non va in giro? Pigro?
“Non è una questione di pigrizia, a 52 anni ho trovato la mia dimensione in campagna, amo restare a letto sommerso dai libri e dai miei cani, il silenzio fuori, alzarmi per mangiare e poi la sera attendere mia moglie, e con lei ridere, ridere e ancora ridere: è la donna più simpatica che abbia mai conosciuto, a volte credo di aver sposato Woody Allen”. Oltre a leggere, ovvio, scrive, “però non quanto vorrebbero gli editori. Purtroppo Andrea Camilleri ha alterato le proporzioni: lui è in grado di pubblicare in continuazione, ha una capacità di scrittura incredibile, il George Simenon italiano, mentre io, come quasi tutti gli altri, no”.
Si parte. “Posso fumare?”. Va bene. “È quella elettronica, non puzza. Devo smettere. Fa male. Sì, devo proprio smettere”. Parla e si aggrappa, con garbo, alla maniglia della macchina.
Corro troppo?
“No, va bene. Proprio non amo i viaggi, forse sarò invecchiato, ma la mia concezione di tempo è notevolmente cambiata in questi ultimi anni, e la campagna mi rispecchia maggiormente”. Parla e allunga il collo verso la fessura aperta. Butta fuori il fumo.
Secondo Maurizio De Giovanni il suo Rocco Schiavone è uno dei personaggio più belli degli ultimi anni. “A Maurizio devo molto”. Per il complimento? “No, perché durante una presentazione collettiva, davanti a centinaia di persone, a un certo punto prendo la tastiera del computer per scrivergli ‘mica male la ragazza in prima fila’. Mi blocca subito la mano. Impugna il mouse. E per fortuna. Il pc era collegato allo schermo gigante, la mia frase sarebbe comparsa, immensa, dietro di noi”. L’ha salvata. “Ed era anche la prima volta che ci incontravamo. Secondo me Nicolò non mi avrebbe fermato”. Nicolò chi? “Ammaniti, per me un fratello, siamo amici da più di vent’anni, condividiamo molto, soprattutto rispettiamo i nostri momenti bassi: a volte non ci sentiamo per un mese”. Però non l’avrebbe salvata. “Sai che risate!”. Ammaniti le piace? “Uno dei più grandi, ha scritto pagine formidabili, ma in Italia paga un po’ il suo carattere da orso”.
Si aggrappa di nuovo alla maniglia. Rallento? “No, non si preoccupi. A quanto va?”. Centotrenta. “Ah, va bene. Certo, quanti camion. Quando vuole ci fermiamo all’autogrill?”. È tra dieci chilometri.
Sosta. Caffè.
“Che prende?”. Un muffin. “Mmmh, buono, ma non potrei”. Dieta? “No, colesterolo, sono costretto a stare attentissimo. (Silenzio, smorfia) Va bene, lo voglio anche io”.
Guardi lo scaffale dei libri, il suo è il più in evidenza. “Accanto a quelli di Elena Ferrante”. La legge? “Sì, mi sono piaciuti”. Insomma, lei è nel lotto degli autori da autogrill, tradotto vuol dire: aver varcato il confine delle penne mortali. “Senta, io sono lo stesso di due, tre o dieci anni fa. Non cambia nulla. Muta solo la percezione degli altri: ora qualunque cosa dico è una verità assoluta; ogni mia parola può suscitare stupore o ammirazione. E non lo capisco. Anzi, mi dà anche fastidio, perché sono sempre il solito Antonio Manzini”. No, lei è Antonio Manzini il numero uno in classifica. “Ho capito. E infatti ricevo le proposte più bizzarre, mi chiamano e mi domandano di tutto, giudizi su tutto, presenziare a tutto”. Mentre lei mira al silenzio della campagna. “Esatto! Posso pagare il conto?”. No. Ripartiamo.
Cento chilometri a Livorno.
“Non mi piacciono gli Autogrill a ponte, troppo grandi, dispersivi, vendono qualunque stupidaggine e poi mi danno l’idea di perdita di tempo. Lo sa che anni fa venivano utilizzati dalla criminalità per sviare i pedinamenti? Ho letto di un bandito talmente furbo e talmente organizzato, da salire da una parte, scendere dall’altra, rubare un’auto, riprendere l’autostrada, cercare un altro autogrill ‘ponte’, ripetere la scena, recuperare la propria auto, e scappare. (Pausa) Ne fumo un’altra…”. Va bene.
Lei dai criminali è un po’ affascinato, i migliori amici di Rocco Schiavone sembrano dei Moschettieri, quasi eroici in quanto a lealtà con gli altri del gruppo: ne ha conosciuti molti? “Ho origini piccolo borghesi e nei primi anni Ottanta mio padre mi disse: ‘Non puoi andare in una scuola da fighetti, per questo ti iscrivo all’Eur, a Spinaceto’”. È il quartiere del quale parla Nanni Moretti in Caro diario, “fuga da Spinaceto”. “Esatto, proprio lì. Sono cresciuto tra pistole, un professore dei Nar (formazione terroristica neofascista), amici che sparivano non si sa perché; e poi tornavano non si sa come”. Lei si divertiva? “No, però mi è servito”. (dieci secondi di silenzio, la radio trasmette gli Who, “Baba O’Riley”). “A quanto sta andando?” Sempre 130, mancano quaranta minuti. “Forse qualcosa di più, è segnalato un incidente e tre chilometri di coda”. Allora faremo tardi. “Tanto non c’è soluzione né uscita, meglio non prendersela”.
Legge molto? “Diciamo di sì, ma non quanto vorrei: la letteratura è un imbuto infinito, la consapevolezza il suo moltiplicatore”. Tradotto? “Avverto lacune perenni, ma a breve voglio leggere dei classici come la Gerusalemme liberata e soprattutto l’Odissea, il padre di tutti i romanzi, il più importante”.
Ha il vizio o la virtù di terminare ogni libro iniziato? “Da qualche anno, no. Da qualche anno mi sono liberato da questo obbligo, sono in grado di rinunciare, di dire ‘mi hai rotto e non intendo perdere altro tempo’”. Grazie a quale autore è avvenuta la “liberazione”? “Non glielo dico…”. Allora mi dica chi ama in particolare. “Già l’ho citato: Simenon. Un fenomeno. Un mostro di bravura. Devo avere ogni sua pubblicazione, i suoi libri sono schierati al centro della mia libreria. Quanto manca all’arrivo?”. Ci siamo, dieci minuti. Ha fame? “No, magari mangiamo qualcosa dopo la presentazione”.
Livorno.
Duecento persone ad accoglierlo, nessuno lo conosce fisicamente. Tutti hanno letto più di un suo libro. La terza domanda è su Rocco Schiavone. “La verità è che non lo sopporto. Prima di intraprendere questa avventura leggevo del rapporto tra gli autori e i propri personaggi, e derubricavo questi amori e odi ripetuti, a semplice snobismo intellettuale. Invece no! Ora capisco Agatha Christie e il suo Poirot, provo lo stesso con Rocco. È una presenza costante, mi arriva all’improvviso, anche quando non vorrei”. Ad esempio? “Tempo fa ho provato a scrivere un racconto dedicato solo alla vita degli amici di Rocco, lui escluso. A un certo punto si è manifestato davanti, mi ha preso la mano, e ha invaso le righe. Tutto finito. Tutto nel cassetto. Arrivederci”. Ora Schiavone è obbligatoriamente nel cassetto, ora c’è il romanzo. “Un lavoro partito quattro anni fa, poi l’ho ripreso a febbraio scorso e l’ho completamente stravolto. Sono così, posso ribaltare qualunque cosa”. Il risultato è stupefacente, lontano dai suoi precedenti, un altro Manzini; il risultato è un romanzo bellissimo, duro, crudo, senza concessioni al lettore, una storia di immigrati-lavoratori a Roma, un Ken Loach in letteratura. “(Resta in silenzio) Se io seguissi il suo paragone, darebbero del montato a me e del pazzo a lei. Però le dico una cosa: Loach è un maestro per tutti noi che in qualche modo ci occupiamo di comunicazione”. Non voglio svelare l’epilogo del libro, ma trovare una porta di luce verso il futuro è arduo. “Il libro si chiude come fa la vita. A un certo punto c’è lo stop. Fine. E quante volte ci siamo chiesti un perchè? Nella vita non c’è uno scrittore a spiegare il motivo di certi episodi, così può accadere nella letteratura”. Se lei non fosse Antonio Manzini, il numero uno delle classifiche, questo libro sarebbe in libreria? “No. Secondo lei piacerà?”. Vedremo, resta un romanzo coraggioso, di quelli che partono dallo stomaco e arrivano al cervello.
Un bicchiere d’acqua. Pausa.
Secondo Arbasino la carriera degli italiani di successo si divide in tre fasi: brillante promessa, solito stronzo e venerabile maestro. Lei tempo fa si è definito un “solito stronzo”. “E lo confermo. Alla terza non arrivo”. Pessimista. “Macché. A volte quando leggo i Classici, penso: ma cosa credi di fare, lascia perdere”. Poi invece riprende. “È pure una forma di terapia, scrivere è una soluzione. E inoltre non sono più costretto ai compromessi della mia vita precedente”. Quella da attore, in una fiction per la Rai aveva il ruolo del ginecologo. “Una volta in treno, mi siedo davanti a una signora. Una bella signora. Lei mi fissa, e dopo venti minuti mi rivolge la parola: ‘Senta, mi scusi il disturbo, ho delle piccole perdite nelle parti intime e da dieci giorni mi è stata prescritta una crema, però già dalla terza applicazione la pelle ha reagito con un rush. Insomma: mi prude. Devo continuare le applicazioni?’ Signora, non capisco. ‘Ma lei non è il dottor…’ No, signora, sono un attore!”. Una donna confusa. “Per me è stata una folgorazione: in quell’esatto momento ho percepito la forza di Silvio Berlusconi, ho compreso il suo successo. Così oggi non mi stupisco più se qualche suo emulo parla del Ponte sullo Stretto” (applausi in platea).
Fine dell’incontro.
Manzini si siede a cavalcioni sul palco, classiche strette di mano, foto, autografi, dediche, c’è chi si presenta con la bibliografia intera. Una signora vuole essere rassicurata: “Mi scusi, ma Schiavone si innamorerà ancora?”. Vedremo.
Di nuovo in auto, direzione Orte.
“Allora, mangiamo qualcosa?”. Nell’attesa una sigaretta (sempre elettronica). “Sì, devo smettere”.
Oltre a vivere in campagna, si occupa di agricoltura, ha il suo orticello? “Non ci penso proprio, ha presente la fatica? L’impegno? I problemi? Per carità, preferisco sempre la lettura”. Solo la lettura? “Va bene, lo ammetto, in questi ultimi anni mi sono appassionato anche di pallone, guardo pure i match degli inglesi”. Perché solo in questi ultimi anni? Da bambino mai? “A mio padre non interessava, lui è un artista, mi ha insegnato una regola base: ‘Quando vuoi investire in un rapporto serio con una persona, prima vai a casa sua e controlla cosa legge’”. Lei ha ubbidito? “In qualche modo, sì. Tutt’oggi quando entro nelle case, controllo immediatamente se ci sono libri e quali. Per me è un parametro molto importante, la carta d’identità di una persona”.
Sono le undici di sera, è tardi, abbassiamo il livello della conversazione: per quale squadra tifa? “La Roma, se vuole parliamo di tattica”. Non esageriamo. Autogrill? “Sì, mangiamo, va”.
Sosta.
“Avete qualcosa senza carne e formaggio?” Vegano? “Sempre il colesterolo”. Tramezzino con il tonno. “Meglio di niente”.
Rifornimento carburante. “Voglio pagare”. No, grazie. “Ci tengo”. Un’altra volta. “Dividiamo alla romana”. In un’altra occasione.
Si riparte.
A novembre parte la fiction su Schiavone. “E non sono mai andato sul set”. Perché? “Ho scritto la sceneggiatura, non volevo impicciarmi, e poi il set ha altre logiche rispetto alla scrittura, non è il libro, sono normali e inevitabili le differenze. Così non ho voluto influenzare il fluire delle giornate”. Visto il suo successo attuale, qualcuno del passato l’ha contattata per riportarla sul grande o piccolo schermo? “Sì, ma non c’è alcuna possibilità. Sono contento così, quella vita è totalmente archiviata, non voglio più recitare. Scrivere per il cinema? Perché no, ma niente più”. Ha già ricevuto proposte? “Non rispondo, e non per causa mia, solo per rispetto di chi mi ha coinvolto: comunque per ora è tutto fermo. Quanto manca?”. Circa trenta chilometri a Orte. “Per quando arrivo, mia moglie sarà già a letto, lei si addormenta alle dieci”. Vita da campagna. “Con gli amici nel weekend: chi viene deve solo rispettare la regola di non rompere le palle agli altri, ma in compenso chiunque ha la libertà di muoversi come meglio crede”.
Orte.
“Dove ho parcheggiato?” Credo lì dietro. “Sì, giusto. È quella nera”. La Panda. “Può aspettare un secondo? A volte non si mette in moto”. Volentieri. Dove abita? “Poco fuori Soriano del Cimino (in provincia di Viterbo), il paese nel quale hanno vissuto anche Pirandello e Pasolini, poi sono arrivato io e ho abbassato la media”. Lo dice e sorride. Scherza. Ma neanche troppo, Antonio Manzini è (per fortuna) ancora così.
Buonanotte.