Ci sono 19mila e 479 ragioni per non fare la seconda voluntary disclosure prima che la prima infornata sia chiusa con un accertamento serio sulla provenienza dei soldi rimpatriati. La prima voluntary disclosure conclusa a dicembre del 2015 con l’adesione di 129mila e 565 contribuenti infedeli ha destato sospetti di riciclaggio in 19 mila e 479 casi, quindi uno su sette. I dati non sono contenuti in un bollettino antigovernativo ma nei “Quaderni dell’antiriciclaggio dell’Uif, Unità di Informazione Finanziaria” di settembre, cioè la pubblicazione dell’ufficio della Banca d’Italia che si occupa della lotta al riciclaggio. Nonostante i rappresentanti della maggioranza continuino a sostenere che la voluntary disclosure riguarda solo il versante fiscale, nelle banche e negli studi quelli che se ne intendono sospettano qualcosa di più grave. Il dato è impressionante anche per la provenienza della “denuncia”. Proprio per effetto delle voluntary disclosure, ci spiega l’Uif nei suoi Quaderni pubblicati a settembre scorso, “le segnalazioni effettuate da commercialisti e avvocati sono passate dalle 158 del primo semestre 2015 alle 3mila e 467 del corrispondente periodo del 2016”. A queste vanno aggiunte le oltre 10mila arrivate dalle banche. In pratica sono gli intermediari e i direttori delle filiali, soggetti pagati dagli evasori stessi o da chi fa affari con loro, ad alzare la paletta rossa del sospetto.
Cosa accadrà ora di queste 19mila e 479 segnalazioni di sospetto riciclaggio? Come sempre l’Uif dopo avere steso un’informativa, gira tutto al Nucleo Valutario della Finanza guidato dal generale Giuseppe Bottillo. Le Fiamme Gialle e le Procure sono il filtro decisivo per dividere le s.o.s. inutili da quelle che fanno ‘tana’ al presunto evasore dietro il quale in verità si cela qualcosa di peggio dei reati fiscali, magari un’estorsione, una bancarotta o una mazzetta.
La questione interessante è però che in Procura – secondo la legge – quelle carte ci dovrebbero finire comunque. Il meccanismo messo in piedi nel 2015 dal governo Renzi prevede che l’Agenzia delle Entrate denunci alla Procura competente i reati fiscali compiuti dal contribuente che ha chiesto e ottenuto il condono entro e non oltre 30 giorni dal pagamento da “scopertura volontaria”. Il motivo della denuncia però non è quello ordinario, cioè l’indagine a suo carico, ma l’opposto: cioè far certificare al magistrato che l’evasore ha commesso il reato ma non è punibile perché si è fatto avanti da solo. L’Agenzia delle Entrate in questo mondo al contrario lavora a favore dell’evasore perché il pm attesti con un bel timbro che è salvo.
Ovviamente i pm potrebbero aprire ognuna delle 129mila e 479 cartelle trasmesse con la preghiera di archiviare i reati fiscali dell’evasore e far saltare il castelletto costruito dall’evasore con i suoi consulenti e il placet del governo e dell’Agenzia. I pm potrebbero per esempio ribaltare la dichiarazione del contribuente infedele che l’Agenzia si è bevuta e scoprire che cela una bancarotta o una tangente o peggio il racket, la mafia o l’usura.
Da quel che risulta al Fatto però le principali Procure non hanno verificato tutte le 129mila e 479 pratiche per scoprire se i contribuenti avessero detto la verità nelle loro dichiarazioni. La sensazione è che le Procure non abbiano molta voglia di guardare una per una tutte le pratiche facendo una seria inchiesta per scoprire chi ha mentito e chi no.
Molte Procure hanno rinviato il problema siglando degli accordi con l’Agenzia delle Entrate che prevedono solo la trasmissione immediata delle voluntary più sospette. Mentre le altre saranno trasmesse con calma alla fine del lungo procedimento di verifica. Si tratta di un atteggiamento comprensibile visto da un lato il numero degli evasori e dall’altro quello esiguo dei pm e dei cancellieri. La Procura di Milano da sola dovrà affrontare un’onda di oltre 50mila casi perché la metà delle voluntary disclosure vengono dalla ricca Lombardia. Il procuratore Francesco Greco ha approntato una squadra agguerrita di pm che sta analizzando una ad una le migliaia di segnalazioni di sospetto riciclaggio dell’Uif ma ovviamente non si può bloccare l’intera Procura di Milano per scoprire tutti gli altarini dei 50mila contribuenti per i quali andrebbero aperti altrettanti fascicoli. In fondo lo spirito della legge è opposto. Si vuole che tutto si concluda a tarallucci e vino con la dichiarazione di impunità agli evasori in cambio di un obolo che alla fine ha portato nelle casse del governo ben 4 miliardi. Anche la Procura di Roma come le procure calabresi o emiliane (sensibili per la vicinanza di San Marino) sono in una posizione di attesa.
Anche in queste regioni sono state fatte le convenzioni tra Agenzia e Procure e anche qui solo una piccola parte delle migliaia di denunce sono state trasmesse. Il risultato è che manca un accertamento serio sulla reale assenza di reati diversi da quelli tributari nelle 129 mila dichiarazioni. Quando la disclosure fu pubblicizzata nel 2015 i funzionari dell’Agenzia delle Entrate spiegavano ai consulenti degli evasori che era “una proposta da non rifiutare come avrebbe detto don Vito Corleone” e aggiungevano che grandi erano i rischi penali per chi non aderiva mentre evidenti erano i vantaggi per chi si consegnava. Certo, rompere quel clima di “tregua armata” mentre lo stesso governo vara la seconda voluntary disclosure potrebbe sgonfiare il gettito del condono. Allo stesso tempo però potrebbe spingere qualcuno a dichiarare in futuro i suoi veri guadagni, senza sperare nell’ennesimo condono all’italiana, con un nome straniero.