Ma cosa deve fare di più la ‘ndrangheta per avere l’attenzione dei giornali? Ieri sono diventate pubbliche le intercettazioni dell’indagine sull’infiltrazione della ’ndrangheta nei lavori dell’Expo. I pm di Reggio Calabria nel loro decreto di sequestro scrivono che le imprese legate alle cosche avevano messo le mani sul “subappalto per la realizzazione dei padiglioni di esposizione della Cina e dell’Ecuador nella fiera Expo 2015 e per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione e delle infrastrutture di base (la cosiddetta ‘Piastra’), per conto della società cooperativa Viridia Milano”, che eseguiva le opere di Expo per conto del Co.Ve.Co., la coop rossa già emersa nel caso Mose.
Gli imprenditori arrestati all’inizio del mese e che ieri si sono visti sequestrare i beni hanno fatto di tutto per farsi notare. In un’intercettazione il manager della Infrasit Pino Colelli, si vanta di avere fatto il 70 per cento dell’Expo, e di aver lavorato anche “al padiglione dell’Italia”. Nel suo curriculum su Linkedin proclama di aver realizzato le canalizzazioni e “tutti i cluster dell’Expo”.
Nelle intercettazioni i suoi complici calabresi lo trattano come un servo e si vantano di picchiare chi non esegue i loro ordini, minacciano di bruciare le case e staccare le corde vocali a chi disobbedisce. Le carte avrebbero avuto ben altro impatto se fossero uscite prima, quando Renzi e il candidato sindaco Beppe Sala vantavano il miracolo delle imprese italiane, o quando l’allora procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati vantava la sua ‘sensibilità’ istituzionale nel chiudere alla svelta le indagini su Expo.
Eppure ieri quando con ritardo il retrobottega di Expo è stato svelato grazie alla Procura di Reggio, i grandi giornali hanno preferito parlar d’altro. Il Corriere della Sera e Repubblica hanno relegato la notizia in cronaca di Milano. Il posto giusto per un’Esposizione universale infiltrata nei padiglioni di Ecuador e Cina.