Nel suo personale gioco dell’oca oggi Matteo Renzi si è fermato sulla casella: “Se vince il No non è la fine del mondo non succede nulla”. Non fateci caso se qualche mese fa zompettava tra il disperato: “Se vince il No mi ritiro dalla politica” e l’immagine truculenta del lanciafiamme da usare contro i nemici interni se dovesse prevalere il Sì. Il personaggio gioca d’azzardo, tutto dipende dai dadi, ovvero dai sondaggi che s’intestardiscono a dare la bocciatura del referendum in vantaggio. Anche se lui si aggrappa al cospicuo numero di incerti sperando che all’ultimo la “maggioranza silenziosa” dei Sì ribalti i pronostici. Se inseguire il premier nelle sue giravolte è passatempo ormai stucchevole incuriosisce di più la tecnica che lo statista di Rignano adotterà in caso di sconfitta per restare comunque a galla: il suo unico, vero obiettivo.
Lo ha detto sere fa Vittorio Sgarbi a Otto e mezzo: “Renzi vince anche se perde”. L’ipotesi di partenza è che al momento della conta il Sì giunga a un’incollatura dal No. “Anche solo con il 47 o 48% dei Sì, Matteo potrà sempre dire sono tutti voti miei mentre il No, sia pure vincendo, presto si frantumerebbe tra D’Alema, Brunetta e Grillo”, ha spiegato con utile cinismo il critico d’arte. Gli è stato replicato che la sconfitta è comunque una brutta bestia da digerire anche se la politica insegna che una volta calmate le acque bisogna poi sempre fare i conti con la realtà. E la realtà dei fatti ci dice che dopo tre anni a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio ha piantato robuste radici nel sistema di potere (sua prevalente occupazione) e che perfino un No potrebbe sì scuoterlo ma non abbatterlo del tutto. Per almeno cinque ragioni.
Primo. Nelle sue numerose piroette, Renzi non ha mai detto: se perdo lascio la leadership del Pd. È comprensibile. Chi guida il partito di maggioranza controlla tutto il cocuzzaro. Del resto chi potrebbe disarcionarlo? La minoranza non ha i voti e il congresso, che qualcuno già ipotizza, nel momento del pericolo comune compatterebbe il blocco renziano intorno al capo. Nuove primarie? E chi potrebbe sfidarlo con qualche possibilità di spuntarla? Franceschini? Cuperlo? Orfini? Via, non scherziamo.
Secondo. Quando Renzi sostiene che vincendo il No non presiederà mai un governicchio di scopo da trascinare fino alle elezioni del 2018 (o a quelle anticipate alla primavera del 2017), va creduto.
Che interesse avrebbe a farsi logorare da quei senatori che intendeva decimare e che non perderebbero occasione per piccole e grandi vendette ai suoi danni? Quella semmai è una poltrona adatta a personaggi che lui, come kingmaker sia pure azzoppato, potrà indicare. Pier Carlo Padoan appare il più adatto a ricoprire la carica di premier di garanzia per l’Europa e i mercati e con una tosta legge finanziaria da approvare. Qualcuno fa il nome del prezzemolo Franceschini. O di Grasso. Una cosa sembra sicura: chiunque fosse il prescelto è a Renzi che dovrebbe rendere conto, perché sarà comunque il leader del Pd a decidere chi mettere in lista e chi escludere in vista delle elezioni anticipate o meno.
Terzo. Berlusconi ha già fatto sapere che un’eventuale affermazione del No riaprirebbe il capitolo larghe intese. Dopo il brusco voltafaccia dell’ex cavaliere a seguito dell’elezione al Quirinale (non concordata) di Sergio Mattarella è difficile che Renzi abbia voglia di imbarcarsi in un Nazareno bis. Tutt’al più si terrà tutte le strade aperte se e quando dovesse ritornare a Palazzo Chigi da vincitore.
Quarto. La vittoria del No renderebbe inevitabile la riscrittura della legge elettorale (che sarà in ogni caso sottoposta al giudizio della Corte costituzionale). Occasione propizia che gli consentirà di togliersi dai piedi il ballottaggio. Benedetto quando Renzi trionfava con il 40% dei voti. Maledetto da quando, secondo tutti i sondaggi, a beneficiare dell’Italicum sarebbero soprattutto i Cinque Stelle. Si chiama eterogenesi dei fini.
Quinto. Dalla Fiat di Marchionne alla grande finanza internazionale, i cosiddetti poteri forti sono tutti con Renzi anche perché non vedono alternative alla sua persona. Di lui si fidano. Perfino Bruxelles, con cui il premier fa finta di fare la voce grossa, ha deciso di stare al gioco per non intralciare il Sì.
Il commissario agli Affari europei, il francese Pierre Moscovici è un suo stretto alleato nel Pse. Così come il presidente del Parlamento europeo, il socialista Martin Schulz che non lo biasima affatto quando dice che “l’Ue ha bisogno di essere un po’ svegliata e che i messaggi di Renzi arrivano chiari”. Il gatto e la volpe.
Insomma, per dirla con Sgarbi, si può vincere anche quando si perde. E tutta quella manfrina sul salto nel vuoto e sul dove andremo a finire se il Sì perde era appunto una manfrina. È il gioco della politica (o delle tre carte). Avete presente quando si estrae il cartoncino con su scritto: ”Fate tre passi indietro con tanti auguri”? Ecco.