Care italiane, cari italiani all’estero, è da tempo che desidero scrivervi questa lettera aperta. Se lo faccio è perché ho avuto la fortuna di conoscere molti di voi nei miei viaggi e soggiorni per l’Europa. E perché sono in contatto con molti miei ex studenti che hanno scelto di andare a lavorare in altri paesi, dal Giappone all’Uruguay, dagli Stati Uniti al Libano. Credo di conoscere abbastanza bene soprattutto i più giovani di voi. Ho ascoltato con attenzione, ogni volta, i racconti delle loro speranze e frustrazioni e le ragioni della loro decisione più radicale: cercare un destino fuori dall’Italia.
Ecco, il referendum del 4 dicembre vi viene proposto come un’imperdibile occasione per fare dell’Italia un’altra cosa. Per darle la velocità politica e istituzionale necessaria a fare buone leggi, per renderla finalmente funzionante ed efficiente, libera dalle incrostazioni di caste e privilegi. Attraverso un intervento massiccio sulla Costituzione, da approvare con un Sì o con un No. Un’Italia migliore per voi, con una Costituzione rimaneggiata per quasi un terzo.
Eppure, ecco la ragione di questa lettera, voi non mi avete mai (ma proprio mai) raccontato di esservene dovuti andare da questo Paese a causa della sua Costituzione. Voi mi avete parlato della difficoltà di aprire una vostra attività. Ricordo quel ristoratore di Berlino che è riuscito ad aprire tre ristoranti in terra “straniera” ma non è riuscito a farlo nella sua terra, in Lucania. Mi avete parlato della difficoltà infinita di avviarsi alla ricerca in un paese che taglia senza sosta sulla conoscenza, e ricordo bene chi di voi è perciò partito per Londra solo con i suoi studi e dopo due mesi mi ha scritto sbalordito di avere avuto un contratto a tempo indeterminato in non ricordo quale fondazione universitaria.
Vi ho spesso fatto l’esempio di quella tangente sull’asse clinica Maugeri di Pavia-Regione Lombardia di alcuni anni fa che da sola sottrasse alle casse pubbliche l’equivalente netto di duemila assegni di ricerca. Una sola tangente, duemila assegni. Ne abbiamo parlato, voi vi siete scandalizzati e io, vedendo il vostro sguardo sconfitto, ogni volta me ne sono indignato.
Spesso mi avete spiegato che siete dovuti andare via dalla vostra regione perché mafia e camorra tolgono spazio e dignità, e umiliano i meriti a vantaggio delle clientele. E infatti avete esportato in tanti, in ogni capitale, il più orgoglioso, e una volta impensabile, made in Italy: l’antimafia. Ve ne siete andati, insomma, perché avete considerato l’Italia chiusa alle vostre speranze. E chi di voi è via da più tempo spiega di rimanere dov’è perché “si lavora meglio” o “perché sono più civili”.
Nei nostri colloqui, e ho buona memoria, mi avete indicato come avversari la burocrazia, le clientele, la corruzione politica, l’arretratezza civile, i disservizi, l’occupazione del potere. Di questo mi avete parlato, a lungo. A volte considerando l’Italia un capitolo chiuso, altre volte sognando di poterci tornare, ma “in un paese diverso”. Ma su nulla di questo, proprio su nulla, inciderà il referendum. Chi ha voluto con ostinazione la “riforma” su cui voteremo, infatti, nulla sta facendo per risolvere i problemi che vi hanno spinto ad andarvene. Si impazzisce ancora di burocrazia, con ministri della semplificazione che nulla semplificano.
Non si fanno leggi severe sui tempi della prescrizione né si sanziona politicamente la corruzione. Il potere viene occupato con più spregiudicatezza di prima, umiliando il merito ed esaltando le clientele più di prima, e ce ne voleva. La differenza è che se ne dà la colpa alla più nobile delle leggi che abbiamo. Decidere più in fretta, si dice, pensando in realtà a come comandare meglio. Ma le assurdità della legge sul voto degli italiani all’estero, esplose in queste settimane, sono dovute proprio alla fretta con cui si volle fare questa legge sotto la spinta della demagogia di media e politica uniti. A conferma che non è la Costituzione a impedire la velocità delle leggi; e che le pause (anche brevi) di riflessione sulle leggi possono, nell’epoca delle campagne e delle isterie mediatiche, essere perfino salutari.
Il problema, come tante volte mi avete detto, è la testa del potere. In realtà è un po’ la testa di chiunque abbia, anche insegnante, anche giornalista, un briciolo di responsabilità nella vita pubblica. Ma un po’ alla volta, senza imbrogliare nessuno e senza ridurre le nostre libertà, ce la faremo. Anche per voi.