La febbre referendaria provoca capogiri. Rachel Sanderson, corrispondente da Milano del Financial Times, spiega dalle colonne dell’autorevole quotidiano britannico che, se vincesse il No, otto banche italiane rischierebbero il fallimento. Nessuna reazione dalle otto banche destinatarie della nomination: Monte dei Paschi, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, Etruria, Banca Marche, Cassa Ferrara e Cassa Chieti. Strano. Se uno scrive che sono a rischio di fallimento riceve minacce di azioni legali, basta scrivere che potrebbero fallire se vince il No e la rabbia si placa.
Il premier Matteo Renzi, nella conferenza stampa di ieri pomeriggio, non ha commentato e ha lasciato la parola al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan “per sentirsi più tranquillo” (ha detto così). Strano: l’ipotesi che il sistema bancario italiano possa collassarsi per effetto dell’esercizio della democrazia per il capo del governo italiano non merita nemmeno una parola tranquillizzante per i mercati (e per gli elettori). E per Padoan il Financial Times non ha tutti i torti: “Non c’è nulla di strano in quello che viene scritto, è ovvio che i mercati finanziari non amino l’incertezza e stiano valutando con perplessità che la politica di riforme sia messa in qualche modo in discussione”.
Invece una stranezza c’è. La stessa Sanderson, in un accurato reportage sulla crisi della banche venete scritto appena cinque giorni fa, ci ha avvertito che in una regione funestata dalla liquefazione di 11 miliardi di risparmi “la palpabile rabbia contro i politici e le istituzioni” ha “potenziali conseguenza politiche sul referendum del 4 dicembre che minaccia di disarcionare Renzi”. La logica stringente del Financial Times sarebbe quindi la seguente: la crisi delle banche potrebbe favorire la vittoria del No, la vittoria del No potrebbe far precipitare la crisi delle banche. È evidente che al ragionamento manca un pezzo. Ai banchieri e dirigenti statali che le hanno dato anonimamente la notizia bomba che il No farà fallire le otto banche Sanderson non ha fatto la domanda decisiva: e se vince il Sì che cosa sarà delle otto banche? Rifioriranno miracolosamente sull’onda del cambiamento? Verranno prese d’assedio da investitori internazionali vogliosi di far piovere i loro capitali sulle banche di un Paese che ha finalmente superato il bicameralismo perfetto?
Difficile crederlo. La verità è che le otto banche di cui si parla sono in condizioni forse disperate, sicuramente molto gravi, non solo ma anche a causa dei tentennamenti del governo Renzi. E certamente non per l’incertezza politica di un referendum che comunque è stato reso simile a un giudizio di Dio proprio dal governo che lo ha voluto. Se avesse senso la minaccia del Financial Times la colpa sarebbe proprio del presidente del Consiglio che quando ha detto “sul referendum mi gioco tutto” si è giocato anche il futuro delle banche italiane, cioè di tutta l’economia del Paese.
Gli investitori che si tirerebbero indietro in caso di vittoria del No, lasciando nelle peste Mps (in attesa di 5 miliardi di aumento di capitale) e Unicredit (in attesa di 13 miliardi di aumento di capitale), sono gli stessi che secondo Renzi gli hanno chiesto di sostituire Fabrizio Viola con Marco Morelli alla guida di Mps come condizione per sottoscrivere l’aumento di capitale. Renzi ha eseguito l’ordine recapitatogli dalla banca Jp Morgan e i mercati hanno accolto la mossa correndo a vendere le azioni Montepaschi.
Le quattro banche che Renzi ha “salvato” un anno fa con il famoso decreto Salvabanche sono ancora lì. Aveva promesso alla Commissione europea che le avrebbe rimesse in sesto e rivendute entro il 30 aprile scorso. Non ha fatto niente. Solo una piccola parte dei risparmiatori truffati hanno visto il risarcimento. Adesso tre delle quattro (Etruria, Marche e Chieti) se le prenderebbe Ubi Banca, che però le vuole ripulite da 2,5 miliardi di nuove sofferenze generate in questo anno di gestione a cura della Banca d’Italia e non del Comitato per il No. La ripulitura la deve fare il fondo Atlante, che però non ha abbastanza soldi.
Le Assicurazioni Generali hanno deciso ieri di convertire in azioni 400 milioni di subordinate Mps, come richiesto da Morelli come condizione per salvare la banca, ma hanno detto che non contribuiranno più al fondo Atlante.
Il presidente di Atlante, Alessandro Penati, ha ricapitalizzato la Popolare di Vicenza con 1,5 miliardi e Veneto Banca con 1 miliardo. Nessuno se le vuole comprare. Lui ha deciso di provare a risanarle fondendole, ma trattandosi di due dirette concorrenti la conseguenza sarà un’ecatombe di sportelli e di dipendenti, si parla di 3 mila esuberi.
Il presidente di Veneto Banca Beniamino Anselmi ha reagito a questo disegno dimettendosi dopo appena tre mesi di mandato: “Non stiamo parlando di barattoli ma di persone – ha detto – quando tocco il lavoro creo tensioni che si riflettono sulle famiglie, sui figli, creo degli sconvolgimenti di carattere sociale che lasciano ferite sulle persone”.
Questa è la situazione delle banche italiane che rischiano seriamente di fallire: quattro delle otto sono pubbliche, Mps ha lo Stato come primo azionista, le due venete sono di fatto commissariate, l’unica veramente privata è Carige. Le responsabilità sono principalmente di un governo indeciso a tutto. Il tentativo di dare la colpa ai cittadini che voteranno No dà solo la misura di un senso di responsabilità istituzionale quasi azzerato.
Twitter @giorgiomeletti