Il tempo stringe. Se dopo il referendum il Movimento 5 Stelle intende davvero candidarsi a ruoli di governo, occorre che espliciti senza ambiguità i contenuti del proprio programma economico. Sul sito c’è una lunga serie di punti programmatici. Proviamo a ricavarne un quadro, per quanto arbitrario, e certamente non neutrale (chi scrive non crede si possano separare i fatti dalle opinioni, ma solo occultare il proprio orientamento).
Si deve iniziare da quello che non c’è: la prima cosa che ci si aspetterebbe sono le scelte macroeconomiche, non certo punti di dettaglio. Nulla è esplicitato su debito, deficit, Pil ecc. (a parte sporadiche dichiarazioni di imminente bancarotta del Paese). Sembrerebbe dunque non esserci una visione di medio-lungo periodo. Questo punto ha forti correlazioni con i vincoli europei, per i quali è manifestata insofferenza, come è manifestata in genere ostilità all’euro. Si veda in particolare non tanto la proposta di referendum sul tema, ma più esplicite dichiarazioni in favore dell’isolazionismo anti-globalizzazione, fino ad apprezzamenti per certe posizioni di Donald Trump (Roberto Fico, per esempio, vuole “difendere i lavoratori dalla globalizzazione”), e qualche alleanza tattica con forze politiche anti-europee (Nigel Farage con Ukip). L’insieme fa pensare a un sostanziale nazionalismo economico (“beggar my neighbour”). Certo una posizione molto vicina a quelle di Le Pen-Salvini, ma presente anche in parti della nostra sinistra.
Rimanendo sempre a livello molto generale, ci sono spinte anticapitalistiche e antimercato (molto presenti i “beni pubblici”), ma anche il sostegno fattivo alle piccole imprese (con il fondo creato con le risorse dei parlamentari), e la esplicita lotta ai monopoli, anche pubblici, con l’altrettanto esplicito auspicio di introdurre tariffe europee per i servizi pubblici. La contraddizione appare vistosa, essendo queste tariffe in genere molto più elevate delle nostre (in particolare per acqua e trasporti).
Andando ancor più in dettaglio: per l’ambiente si auspicano molte cose sensate. Sembrerebbe infatti che si favoriscano “incentivi” e “disincentivi” piuttosto che divieti (meno efficienti), ma dimenticando che per i trasporti esistono già (abbiamo le tasse sulla benzina tra le più alte del mondo) e invece mancano proprio per l’agricoltura, estremamente inquinante, che invece sussidiamo generosamente e che il movimento sembra difendere sotto lo slogan della lotta al “consumo di suolo”.
Per i trasporti, la dichiarata lotta al monopolio delle Ferrovie dello Stato (società interamente pubblica) sembra confliggere con la difesa di altri importantissimi (e deleteri) monopoli pubblici: le aziende locali di trasporto. Si veda il recente caso di Roma, con veementi attacchi a qualsiasi ipotesi di privatizzazione dell’azienda monopolistica capitolina, fino a dimenticarsi l’obbligo legale di fare gare aperte a tutti tra due anni (se vincesse un privato più efficiente di Atac, cosa succederebbe?). Se si applicassero tariffe medie europee, i biglietti e soprattutto gli abbonamenti dovrebbero raddoppiare, cosa corretta secondo chi scrive, ma che porrebbe al Movimento qualche problema di consenso.
Un’osservazione molto strettamente “corporativa” (cioè da economista) concerne poi gli economisti di riferimento del M5S, che non sembrano numerosi né chiaramente collocati. Qualche suggerimento sembra provenire dalla scuola francese, molto controversa, della “decrescita felice” (Alain Touraine), che certo si basa su un forte isolazionismo economico, e che, a fronte degli attuali problemi (soprattutto occupazionali) non sembra aver proposto soluzioni molto operative. Del tutto condivisibile a chi scrive pare il concetto di “reddito di cittadinanza”, ma solo se sostitutivo, non aggiuntivo, di molti degli attuali meccanismi di welfare (spesso paternalistici), pena l’incompatibilità con qualsiasi equilibrio di bilancio.
Tentiamo una conclusione. Assumiamo che sulle scelte macroeconomiche (le meno definite) votino davvero gli iscritti, sulla base sia del nazionalismo economico di fondo che sembra emergere dal movimento, sia dei propri interessi a breve termine (del tutto legittimi). L’ostilità all’Europa e alla globalizzazione emergerebbe come orientamento dominante. Il risultato più probabile sarebbe il berlusconiano “meno tasse e maggiori pensioni per tutti” (o beni comuni ecc., in questo caso). Convergerebbero dunque verso l’uscita dall’euro, non solo le idee, ma anche, più fattualmente, qualsiasi ipotesi di compatibilità di bilancio. Di fatto, un “default” sul debito pubblico di tipo argentino. Forse non è così, per carità. Ma ci sono diversi indizi. Per questo oggi sembra sempre più indispensabile che il Movimento sciolga ogni ambiguità, sia a livello di fini che di mezzi, su questo e su molti altri temi economici cruciali.