Ma chi l’avrebbe detto che Babbo Natale, sceso dalla slitta ed entrato di soppiatto nelle nostre case, ci avrebbe portato, poggiandola con nonchalance sotto l’albero, una bella confezione-famiglia di marce indietro sul prodigioso Jobs act. Quella legge che rilanciava il lavoro, quella per cui Giuliano Poletti dava i numeri al Lotto, corretto e bacchettato a ogni esternazione, la legge che teorizzava che licenziare era un toccasana, perché si sarebbe fatto spazio ad altri.
Una specie di grandiosa ammuina: quelli che stanno a prua vadano a poppa… quelli a poppa vadano a prua… quelli che lavorano li cacciamo, così possono lavorare un po’ gli altri. La legge che portava la modernità contro quei maledetti corpi intermedi vecchi come il gettone del telefono. La legge dei voucher, soprattutto. Se ne vendevano mezzo milione all’anno, prima del Jobs act, e poi, dopo la rivoluzione di Renzi e Poletti, nel 2016, si è arrivati a 160 milioni. Niente male per chi diceva di aver “abolito il precariato”, e nemmeno gli veniva da ridere mentre registrava un videomessaggio in cui diceva che non pensava alla Thatcher, ma a Marta, a Giuseppe e alle loro vite da Co.co.co… Era una retorica buona fino al 4 dicembre, quando alcune centinaia di miglia di Marte e Giuseppi, passati da Co.co.co a voucheristi, gli hanno fatto – non precariamente – il gesto dell’ombrello.
Ma torniamo a Babbo Natale. Accortosi da qualche trafiletto sui grandi giornali che il referendum promosso da quelli là – quelli del gettone del telefono, antichi, anziani, ideologici, pussa via – potrebbe essere accolto, ecco la scatola di montaggio con dentro tutte le nuove visioni del mondo e le autocritiche: bisogna regolare, prevedere multe per chi abusa, controlli più efficaci, eccetera, eccetera. E anche ora non gli viene da ridere, mentre alle Marte e ai Giuseppi sì, anche se amaro.
Dunque ora sono tutti d’accordo, si direbbe, il Poletti furioso, il presidente dell’Agenzia nazionale per il lavoro Del Conte – messo lì da Renzi – che dice addirittura (al Corriere) che “gli effetti sono stati opposti a quelli previsti”, poi le pagine dell’economia, i commentatori, gli ex-entusiasti di colpo diventati critici e pensosi. Sono i miracoli dei referendum: non fossero arrivati sul tavolo della Consulta i quesiti della Cgil, Babbo Natale ci avrebbe portato le solite sciarpine e i soliti golfini, e non le accorate e tardive preoccupazioni sul lavoro voucherizzato. Tanto è vero che qualche voce dal sen fuggita lo dice: mica è per raddrizzare le orribili storture del mercato del lavoro che si metterà mano (forse) alla discipina nefasta dei voucher, ma perché non ci si può permettere – coté renzista – un’altra sberla referendaria. Insomma, care Marte e Giuseppi, mica lo fanno per voi: lo fanno per loro, qualcosa si inventeranno, tranquilli, non lo vedere il padulo che già si libra nell’aere?
Senza contare che sì, va bene, uff, che palle, sui voucher si farà qualcosa, ma sull’articolo 18 (altro pezzo del Jobs act sotto scacco referendario) no, quello è la linea del Piave, altrimenti (ancora Del Conte) “Amazon e Google sarebbero tentati di andar via”. Porca miseria, che rischio. Comunque, tranquilli, come ha già detto il ministro Poletti in una delle sue dadaiste esternazioni, se proprio si dovrà votare al referendum sul lavoro, basterà piazzargli di traverso le elezioni politiche, in modo da farlo saltare. Genio. Si registra comunque, ora che Babbo Natale se n’è tornato là da dove è venuto, che tra Natale e Capodanno dell’anno 2016 si è consumato il grande testacoda: il toccasana è diventato una polpetta avvelenata, il “superamento” (ahah!) del precariato si è rivelato un moltiplicatore di sfruttamento e tutti sono più buoni. Finché non trovano il trucco giusto. Buon anno.