Giunto al suo secondo messaggio di San Silvestro, Sergio Mattarella fa un discorso prettamente politico, e non solo per la parte finale sulla legge elettorale, e distrugge l’intera narrazione renziana dei mille giorni, il fatidico storytelling dell’Italia felix, in continuità con la visione berlusconiana dei “ristoranti sempre pieni”. Al contrario, Mattarella, seduto in poltrona senza scrivania, e circondato dal rosso delle stelle di Natale, s’ispira al principio di realtà e parla di una “comunità” che “va costruita, giorno per giorno, nella realtà”. Non nelle slide o nei tweet. La realtà come valore guida di ogni analisi seria.
In questo, Mattarella, da democristiano di sinistra, archivia pure i nove anni della monarchia repubblicana di Giorgio Napolitano, comunista di destra fedele al principio togliattiano di usare il realismo per guidare i processi politici. Non proprio agli antipodi, ma quasi. Per il capo dello Stato, allora, “il problema numero uno del Paese resta il lavoro. Combattere la disoccupazione e, con essa, la povertà di tante famiglie è un obiettivo da perseguire con decisione. Questo è il primo orizzonte del bene comune”. Il presidente, la sera dell’ultimo dell’anno, pur senza citarlo, sfiducia di fatto davanti agli italiani anche l’improbabile ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, confermato da Gentiloni, e protagonista di un’oscena gaffe sui giovani che vanno via per lavoro: “Centomila giovani che vanno via per lavoro? Alcuni è meglio non averli tra i piedi”. Frase pronunciata nello stesso giorno in cui a Berlino è rimasta uccisa Fabrizia Di Lorenzo, altra giovane italiana morta ricordata sempre ieri da Mattarella.
Sui giovani che vanno via, il capo dello Stato ha pronunciato parole sinora mai sentite da un esponente di governo: “Molti di voi studiano o lavorano in altri Paesi d’Europa. Questa, spesso, è una grande opportunità. Ma deve essere una scelta libera. Se si è costretti a lasciare l’Italia per mancanza di occasioni, si è di fronte a una patologia, cui bisogna porre rimedio. I giovani che decidono di farlo meritano, sempre, rispetto e sostegno”. Altro che levarseli dai piedi, altro che Poletti, rimasto tranquillamente al suo posto. Dov’è, dunque, l’Italia felix tanto cara all’ex Rottamatore in esilio zen nella sua Pontassieve? Anche perché il principio di realtà mattarelliano riferisce di “una crescita debole”, di “ansie diffuse nella società”, di “diseguaglianze, marginalità, insicurezza” che “minano le possibilità di sviluppo”, infine della tradizionale frattura tra il Nord e il Sud del Paese, quest’ultimo afflitto da un atavico “affanno”.
L’analisi presidenziale non risparmia nessuno. Le varie sfumature dell’avanzante populismo investono innanzitutto le riflessioni del Colle sul “terrorismo internazionale di matrice islamista”. In ogni caso, pur assicurando “tutti gli sforzi” per la sicurezza, “l’equazione immigrato uguale terrorista è ingiusta e inaccettabile”. L’odio, poi, “come strumento di lotta politica” e in abbinamento al “ring permanente” del web, “dove verità e falsificazione finiscono per confondersi”. Chiari sia i riferimenti a Lega (immigrazione) e grillini (odio e uso del web), da inquadrare nella premessa di Mattarella dell’altra sera, quella di “una comunità di vita” che se divisa e rissosa “smarrisce il senso di comune appartenenza, distrugge i legami, minaccia la sua stessa sopravvivenza”. Anche qui, rispetto al passato di Re Giorgio, la cesura è netta. Napolitano, da politicista, era interessato esclusivamente dalla sopravvivenza del Sistema, minacciato dalla “patologia eversiva” dell’antipolitica. Mattarella, invece, affida alla dinamica della comunità l’analisi delle questioni, senza fare sconti a nessuno. Non a caso, il capo dello Stato non ha mai citato la parola “riforme”, vero tormentone dei lustri scorsi.
E qui si arriva alla parte finale sulla legge elettorale, anticipata dal Fatto sabato scorso. Ancora una volta, il presidente è entrato nel merito del problema, stavolta davanti agli italiani riuniti a tavola per il cenone di San Silvestro. In sostanza, un no secco definitivo all’ipotesi di votare senza una legge elettorale ma con il Consultellum per il Senato e l’Italicum per la Camera, come vorrebbero “i due Mattei”, sia Renzi sia Salvini: “Con regole contrastanti tra loro chiamare subito gli elettori al voto sarebbe stato, in realtà, poco rispettoso nei loro confronti e contrario agli interessi del Paese”. Proprio per questo la reazione del leader leghista, seguito dalla fasciolepenista Giorgia Meloni, è stata brutale: “Sergio Mattarella non mi rappresenta. Ha detto che si vota il più tardi possibile: sento aria di regime, aria di poltrone, di restaurazione, puzza di vecchio, di ritorno della veccia Dc. Noi non ci stiamo”. A Salvini, ha risposto per tutti il premier Gentiloni: “Vergognati”. Anche se “il plauso unanime” della maggioranza di governo a Mattarella ricorda lo sketch di Totò-Pasquale preso a schiaffi ma che rideva.