Su carta bianca lasciata a tutti, si scrive di tutto. È come la porta del bagno dell’autogrill: ci si può trovare impresso l’appello alla pace nel mondo così come ‘mia cugina è una prostituta’. Fa parte del sacrosanto diritto della libertà di espressione, che non può essere represso, ma al massimo regolato”. Enrico Mentana, direttore del tg di La7, nel 2016 ha coniato e diffuso il termine “webeti” per indicare il populismo spicciolo e le polemiche gratuite dei commentatori online.
Mentana, il presidente dell’Antitrust propone un’agenzia pubblica che monitori le notizie false sul Web. Che ne pensa?
In generale sono contrario alle censure e alle sanzioni. Non sono contrario, però, all’idea di un organismo di fact checking, ma deve valere per tutti i settori, non solo per il Web. L’informazione deve essere verificata a ogni livello, per ogni organismo che possa diffondere notizie false. Per farlo, però, dovrebbe esserci un esercito: è questo il problema di fondo dell’idea di un ente pubblico. Sarebbe più agevole che agisse il sistema che veicola le informazioni o i commenti, da Facebook a Google.
E basterebbe?
No. L’unica arma davvero efficace è l’identificazione diretta. Dovrebbe esserci l’obbligo di certificare la propria identità e quindi di essere riconoscibile. Capita che si esprima il proprio pensiero e ci si ritrovi commenti del tipo “stai zitto bastardo di merda”, firmato da XYZ. Indenunciabile. L’identità non può essere nascosta: puoi essere libero di dire ciò che vuoi, ma devi metterci nome e cognome. Il vero nemico, in una società libera, è l’anonimato.
Spesso i siti che diffondono notizie false sono anonimi.
Esatto. Chi fa informazione ha dei vincoli, tra cui quello della responsabilità del direttore anche sul lavoro dei propri giornalisti. Se si costringesse chi è sul Web a essere raggiungibile e identificabile, non ci sarebbe bisogno di alcun ente censore che, oltretutto, genererebbe una lunga sfilza di contenziosi, decenni per decidere chi abbia ragione ed eventuali tribunali civili. Se qualcuno volesse avvelenare i pozzi, dovrebbe metterci la firma. Dovrebbe esserci un social network nazionale, a cui ci si registra con nome e cognome e dove puoi anche scrivere “sei un coglione” o che Berlusconi è incensurato, ma firmato.
L’informazione corretta rischia di essere sfiduciata?
Il sistema d’informazione sta trasmigrando sul Web e lì deve trovare un nuovo equilibrio. Ma quell’informazione è fondamentale perché è certificata dal mittente. Può anche diffondere una baggianata: ma se ne conosce l’autore e può essere sanzionato. Anche non comprando più il giornale. In politica è sempre esistita un’informazione non certosina: nascondere la trave nell’occhio amico e cercare la pagliuzza altrui. Però non esiste che un articolo non firmato la passi liscia se diffama una persona. Oggi pretendiamo trasparenza su tutto, anche sulla provenienza del riso. È impensabile che non sia lo stesso per l’informazione. .
Crede che le fake news abbiano influenzato l’elezione di Trump o l’esito dei referendum, italiano e inglese?
L’informazione negativa influenza sempre in qualche modo una campagna elettorale. Si pensi a quella su Berlusconi, fatta per anni. Altro discorso è invece il macigno sulla “post verità”: sulle elezioni americane, dall’Italia, era chiaro che le informazioni contro Trump fossero molto più numerose di quelle contro la Clinton. È ridicolo oggi raccontare il contrario. Otto anni fa si leggevano articoli su quanto fosse fico Obama perché usava i social network per la sua campagna. E oggi? Capovolgiamo il concetto solo perché ha vinto Trump? Il termine post truth è da un lato troppo ingenuo, dall’altro troppo ingegnoso. E comunque è troppo generico. Non è altro che la balla dell’altro, mentre la tua, di balla, passa come una considerazione. Il voto, in realtà, è viscerale: il ritratto arriva dopo. Accattivante o repellente che sia.