È uno di quei casi in cui il termine post-verità può riferirsi non solo a qualcosa che è altro dalla verità, ma anche a una verità che arriva dopo. E lo fa con un articolo di Glenn Greenwald, fondatore del sito di inchieste The Intercept ma, soprattutto, giornalista che nel 2013 ha svelato lo spionaggio di massa della National security agency americana.
A subire il fact checking di Greenwald, a fine dicembre, è il Guardian (su cui era stato pubblicato lo scoop Nsa) reo di aver distorto i contenuti dell’intervista che Julian Assange, fondatore di Wikileaks ora in asilo politico presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, aveva rilasciato alla giornalista Stefania Maurizi per Repubblica. “Julian Assange elogia Trump e attacca la Clinton in un’intervista” era il titolo dell’articolo, diventato virale online, a firma di Ben Jacobs. “Una sintesi completamente falsa” è stata la risposta di Greenwald. E a ragione.
Ricostruiamo la vicenda. il 24 dicembre: sul sito del Guardian, Ben Jacobs pubblica un articolo in cui si sostengono due tesi. La prima: nell’intervista, Assange avrebbe lodato Trump e disprezzato la Clinton. La seconda: Assange avrebbe uno stretto rapporto con il regime di Putin e avrebbe detto che in Russia non c’è alcun bisogno di Wikileaks (e quindi delle soffiate anonime, il cosiddetto whistleblowing) visto l’aperto e partecipato dibattito nel Paese. Il cronista ricorda poi le accuse dell’intelligence americana contro hacker russi al servizio di Putin, accusati di aver passato a Wikileaks informazioni contro la Clinton per favorire Trump in campagna elettorale. Come Greenwald dimostra (e come ripetuto dalla stessa Maurizi in tweet, puntualmente ignorati dal Guardian), basta leggere l’intervista – pubblicata in inglese su Repubblica.it – per accorgersi che Assange non ha detto nessuna delle due cose e che quella testata che tanto si è schierata contro le fake news stavolta ne è stata promotrice.
“L’elezione di Hillary Clinton – dice Assange quando gli viene chiesto di commentare la vittoria di Trump – avrebbe implicato il consolidamento del potere nella preesistente classe dirigente degli Stati Uniti. Trump non è un insider, fa parte della classe dirigente ricca degli Stati Uniti e sta raccogliendo attorno a sé uno spettro di altre persone ricche e molte personalità idiosincratiche (…) una struttura debole che sta destabilizzando e soppiantando la rete di potere centrale preesistente (…) Al momento il suo declino indica che ci sono opportunità di cambiamento negli Stati Uniti: un cambiamento per il peggio e un cambiamento per il meglio”. Un’osservazione sociologica sulla possibilità che l’instabilità politica porti vantaggi. E che, spiega Greenwald, rende Wikileaks esattamente come ogni organizzazione, politica e mediatica, che stia cercando di convertire in qualcosa di buono la “nuvola nera” attorno all’elezione di Trump. Nessuna lode, nessun attacco.
Poi c’è la parte sulla Russia: Assange risponde alla domanda sul perché Wikileaks non riceva dai regimi di Russia e Cina lo stesso numero di leak che invece arrivano dai paesi occidentali che, probabilmente, sono stimolati dalle stesse rivelazioni. “La mia interpretazione è che in Russia ci siano molti concorrenti a Wikileaks, dove oltretutto mancano membri dello staff che parlino il russo…”, spiega Assange. Poi aggiunge che comunque hanno pubblicato più di 800mila documenti legati alla Russia e a Putin. E due milioni di documenti sulla Siria e su Bashar al-Assad. dati omessi dal Guardian. “Ma la maggior parte delle nostre pubblicazioni arriva da fonti occidentali… – ribadisce – la vera discriminate è quanto una cultura sia distante da quella inglese. Quella cinese lo è abbastanza”.