Alla Camera sono la seconda categoria più rappresentata. Al Senato la terza. E anche se nell’ultima legislatura c’è stato un crollo numerico – con le elezioni del 2013 si è passati da 86 parlamentari a 42 – il dato la dice lunga sull’italico e incestuoso rapporto tra i giornalisti e la politica. Un fenomeno antico e universalmente accettato. Da sempre, ogni volta che c’è una chiamata alle urne, frotte di sedicenti cani da guardia del potere gettano il cuore oltre l’ostacolo e tentano di diventare potere essi stessi. La cosa non suscita dibattito o scandalo. Il fatto che, al pari dei magistrati, i teorici arbitri della partita indossino a match in corso la maglia di una delle squadre in campo è ritenuto un semplice esercizio del diritto di rappresentanza attiva previsto dalle democrazie liberali.
In realtà la faccenda è molto più complicata. Perché le porte dei partiti e delle assemblee elettive non sono solo aperte, come è giusto che sia, anche a chi lavora nei giornali. Sono pure girevoli. Si viene eletti e una volta decaduti si torna a fare il lavoro di prima. Si torna cioè ad autodefinirsi dobermann, giacchette nere, maestri d’indipendenza e d’imparzialità.
Il fenomeno non è privo di conseguenze. La prima è la perdita di credibilità e autorevolezza. Agli occhi di molti cittadini ogni articolo, cronaca, servizio, analisi o commento, sia antecedente che successivo al mandato, appare come esclusivamente mosso da spirito di parte. A volte è vero, a volte è falso. Ma, al di là dei singoli casi (è raro, ma esistono pure buoni giornalisti che diventano buoni politici e poi riescono a ritornare a essere solo giornalisti) il risultato non cambia: i media sono sempre più considerati semplici strumenti di una bandiera. Accanto all’accusa, spesso fondata, di essere al servizio degli interessi economici degli editori – in Italia quasi mai puri – si aggiunge quella di essere non reporter o liberi opinionisti, ma propagandisti. Per questo il “giornalista di ritorno” dovrebbe rispettare almeno una regola: non occuparsi più di politica, ma scrivere per molti anni solo sport, taglio e cucito, giardinaggio o di qualsiasi altra materia lontana anni luce dalla sua militanza di partito.
Il fenomeno delle porte girevoli ha poi un’altra conseguenza. Meno evidente, ma non meno importante. Causata da una caratteristica propria di entrambe le attività: l’incompetenza cronica. Per fare il politico o per fare il giornalista non è richiesta nessuna preparazione. Oggi, è vero, almeno nel secondo caso le cose stanno cambiando. Le scuole sfornano ogni anno centinaia di aspiranti cronisti (in genere purtroppo destinati alla disoccupazione) dotati di lauree multiple e poliglotti.
Di fatto però nei giornali domina ancora la generazione di chi s’immedesima nel fulmineo incipit de Le città bianche di Joseph Roth: “Un giorno, disperato perché ogni lavoro era del tutto incapace di soddisfarmi, divenni giornalista… sapevo solo pedalare su una modesta bicicletta”. Ma se essere in grado di raccontare cose di cui fino a un istante prima non si sapeva nulla nei media è ritenuta una virtù (un buon cronista può agevolmente scrivere bene pure di esteri, scienza o economia), la situazione cambia se si pretende di amministrare la cosa pubblica. Perché, come spiegò tanti anni fa il grande critico letterario e dell’arte Emilio Cecchi (mai laureato) a Indro Montanelli: “I giornalisti sono come le donne di strada: finché ci rimangono vanno benissimo e possono diventare qualcuno. Il guaio è quando si mettono in testa di entrare in salotto”.