Il silenzio che ha accolto l’ultimo libro di Ernesto Galli Della Loggia costringe a occuparsene, soprattutto ora che sul Fatto Quotidiano stiamo indagando il problema profondo della politica italiana, quello che accomuna renzismo e Cinque Stelle: l’assenza di una classe dirigente all’altezza del potere da amministrare. E poiché per dirigere bisogna prima avere idee sulla direzione e la strada da seguire, dietro i problemi di gestione c’è sempre un vuoto di idee.
Di questo si occupa Credere, tradire, vivere (Il Mulino), saggio di storia collettiva e personale che non ha suscitato alcun dibattito, pur essendo il suo autore uno degli intellettuali pubblici più noti e attivi degli ultimi decenni.
A parte una recensione sul Corriere della Sera, di cui Galli Della Loggia è tra gli editorialisti principali, il libro ha raccolto soprattutto indifferenza. E forse non poteva essere altrimenti, visto che i potenziali recensori ne sono anche i protagonisti: “Nel corso della nostra storia troppe volte le classi intellettuali e insieme a loro un po’ tutta la società italiana, sono state costrette a cambiare idee, valori, punti di vista. E però ogni volta hanno dovuto farlo sotto la pressione degli eventi, senza alcuna discussione pubblica, senza mai poter ammettere e poter chiamare con il suo nome quello che stavano facendo”. Perché “tradire”, sostiene il titolo, è quella cerniera ineludibile che unisce il “credere” con il “vivere”, dietro ogni dogmatismo c’è ipocrisia, la coerenza nasconde ottusità o il tentativo di costruire a posteriori un percorso tra le evoluzioni inevitabili nel percorso culturale di ciascuno.
La negazione del diritto a cambiare, argomenta il professor Della Loggia, nasce dal rifiuto degli italiani di confrontarsi con il proprio passato fascista. “Mi chiede perché fino a oggi non abbiamo parlato del nostro fascismo? Ebbene: perché ce ne ver-go-gna-va-mo”, confidava il filosofo Norberto Bobbio, novantenne, a Pietrangelo Buttafuoco in un’intervista del 1999 da poco ripubblicata dal Foglio. Negare che anche i campioni dell’antifascismo avevano trovato un loro modo per convivere con il regime, nel percorso che li ha portati a diventarne poi avversari, permetteva di evocare una purezza originaria tanto necessaria alla nuova Repubblica quanto fittizia.
La prima Repubblica, dice Galli Della Loggia, è stata ingessata soprattutto da sinistra: chi abbandonava il centro per spostarsi a sinistra era un illuminato, chi invece sollevava dubbi sul socialismo reale, sulla repressione, sulle reali intenzioni del Pci, era un traditore. Quando la storia ha iniziato a esigere nuove risposte e un’evoluzione è diventata inevitabile, la “diversità comunista” si è trasformata in “questione morale”, altra garanzia di immobilità e premessa per marchiare come voltagabbana e traditore chi non sceglieva una delle due fazioni in campo. Galli della Loggia sorvola su cosa c’era sul fronte opposto della questione morale (avendo partecipato alla cavalcata socialista, il professore racconta Bettino Craxi come un leader un po’ ingenuo, convinto che l’ambizione dei suoi sodali, alimentata dalle mazzette, sarebbe stata superata e perdonata con la modernizzazione del sistema politico).
La presenza di queste così nette distinzioni non ha però mai impedito agli intellettuali di spostarsi, riposizionarsi, rinfrescarsi. Della Loggia è implacabile nel segnalare le riscritture del passato, anche e soprattutto individuale. L’ex Ds Fabio Mussi, per esempio, nel 1981 citava tra le sue letture giovanili “Marx, Thomas, Mann, Adorno, Macuse e Bnjiamin”. Nel 1999 erano diventate “Pavese e Silone, Hannah Arendt e Koestler”.
Ma il professore è assai più indulgente, o forse semplicemente molto onesto, nel giustificare le proprie svolte culturali e politiche (dunque umane, visto che per molti intellettuali dalle idee dipendono anche gli amici, le vacanze, le mogli). Prima socialista, poi – con alterne fortune – interlocutore non ostile della cultura comunista egemone, una scappatella radicale, sempre più anti-comunista alla fine degli anni Settanta fino a tornare socialista versione craxiana negli anni Ottanta e pure un po’ edonista (una generazione non più giovane si illudeva di poter essere “per sempre giovani”). E infine “terzista” negli anni del berlusconismo, sempre con l’argomento che dietro le invocazioni delle pubbliche virtù c’è ipocrisia. Per spiegare le evoluzioni, Galli Della Loggia invoca sempre “l’aria dei tempi”, oppure “il clima”: con questo alibi meteorologico finisce per sentirsi magari non allineato, libero, ma sempre anche così ben inserito nel sistema da avere sempre l’agenda piena e troppe prestigiose offerte per accettarle tutte, che viene un sospetto: forse “l’aria dei tempi” lo ha sempre spinto – lui come tanti altri suoi più reticenti colleghi – dalla parte giusta, che spesso coincideva con quella del potere dominante?
La Seconda Repubblica ha replicato gli schemi della Prima, tra avvisaglie di fascismo e scomuniche, dice Della Loggia. Dopo è rimasto il vuoto, che si chiami antipolitica o “populismo del potere” (quello che Ezio Mauro vede in Matteo Renzi).
La colpa di tutto questo è forse di chi ha troppo spesso negato il diritto di cambiare idea. Ma anche di chi ha screditato la coerenza, lasciandoci il cinismo come unico approccio alla politica e ai suoi intellettuali.