Non c’è altro da fare in Italia che accapigliarsi sui Cinque Stelle. Commentare, applaudire o assai più spesso condannare una loro parola, un fatto, una decisione.
Come se il resto del teatrone politico fosse costituito da attori immobili ed eterni, sui quali il giudizio è oramai del tutto irrilevante e non produce effetti pratici. Esempio: quante maggioranze Angelino Alfano ha attraversato? Vattelapesca! Era ministro con Silvio Berlusconi, lo è stato con Enrico Letta e pure con Matteo Renzi. Oggi è al fianco di Paolo Gentiloni e domani chissà. Si può fare qualcosa? Sembra di no, il suo destino prescinde dal nostro voto. Lui c’è e basta.
Dunque non ci resta che fare i conti, a volte ossessivamente, solo con questo movimento al quale conferiamo fiducia per negazione (non sappiamo a chi altri diavolo rivolgerci) o – molto più spesso – la rifiutiamo (li avversiamo così tanto che preferiamo votare il diavolo ma non loro). Non c’è un pensiero, figurarsi un partito. Non tifiamo per. Semplicemente ci capita di opporci a quella che è oggi l’opposizione. Cosicché quando vediamo pubblicata la classifica dei sindaci più popolari, che ogni anno stila il Sole 24 Ore, rincorriamo subito i nomi dei Cinque Stelle. E, sorpresa, li ritroviamo in testa e in coda. Chiara Appendino a Torino prima, Virginia Raggi a Roma tra le ultime, e un ex – Federico Pizzarotti di Parma – al terzo posto. Di nuovo monopolisti, nel bene e nel male. È come se solo loro avessero una relazione comune e gli altri invece separati e ignoti destini. Risponde al Pd, per esempio, il sindaco di Milano Giuseppe Sala (30º posto)? E qual è il primo cittadino eletto grazie all’impegno pubblico di Berlusconi? Il deserto, oltre i Cinque Stelle. Come mai?
Ci soccorre un’altra classifica, assai più rigorosa, stilata dal World Economic Forum: tra trenta Paesi presi in considerazione, l’Italia è quello che ha meno fiducia nella sua élite. Tutto si tiene.