“Il grido d’aiuto di Lampedusa è arrivato a Hollywood”. Da una stanza d’hotel a Tokyo, l’esultanza composta di Gianfranco Rosi: il suo Fuocoammare ce l’ha fatta, è entrato nella cinquina del documentario agli Oscar. Un traguardo prestigioso che il nostro cinema del reale non tagliava da 55 anni, da La grande Olimpiade di Romolo Marcellini del 1962. Anche per trovare un titolo italiano nominato al di fuori della categoria film straniero bisogna andare parecchi anni a ritroso: La vita è bella di Roberto Benigni, sette candidature e tre statuette nel 1999. Una vita.
“Non ci credevo più, è stata una battaglia fino all’ultimo: dedico questa nomination a Lampedusa e ai lampedusani. Ho sentito il dottor Bartòlo e il sindaco Giusi Nicolini: alla notizia della candidatura dall’isola si è levato il grido di tremila persone”.
Non sarà facile il 26 febbraio prossimo trasformare la nomination in premio, perché la concorrenza di I Am Not Your Negro, Life / Animated, OJ: Made in America e 13th è forte, anche sotto il profilo politico: “Sono film che trattano la discriminazione razziale ai danni degli afroamericani e/o diretti da afroamericani: c’è una grossa presenza africana a questi Academy Awards, del resto, c’è anche in Fuocoammare”. Se Pietro Bartòlo, il medico che dirige il poliambulatorio di Lampedusa e visita ogni migrante che sbarca sull’isola, parla apertamente di “candidatura che è già una vittoria”, Rosi tra realismo e scaramanzia si mette in scia: “La meta era questa, ora nel mese che ci separa dalla Notte degli Oscar ci divertiremo e basta”. Il regista rintuzza anche ogni residua polemica sulla corsa, fallita, nella categoria film straniero: “Non ci conosceva nessuno, la doppia candidatura ci ha aiutato tantissimo”. E guarda Oltreoceano: “È una risposta ai muri e alle paure di Trump. L’America è rimasta spiazzata, e al di là delle nostre stesse intenzioni ha fatto di Fuocoammare un film politico: i deserti californiani sono un cimitero come il Mediterraneo. Con il cinema non si cambia la storia, ma Lampedusa è diventata una metafora, uno spazio mentale universale”.
Ad allargarsi, oltre le più rosee previsioni, è anche La La Land, il musical del trentaduenne Damien Chazelle: primatista con 14 nomination, un record che da oggi condivide con Eva contro Eva (1950) e Titanic (1997). Dal 26 gennaio nelle nostre sale, interpretato da Ryan Gosling ed Emma Stone, La La Land ha già fatto sette premi su sette candidature ai Golden Globes, ed è ovviamente il grande favorito: dovrà vedersela con Arrival e Moonlight, appaiati a quota otto.
Ma la griglia di partenza degli 89esimi Oscar non dice solo di cinema, ma di politica: dopo la querelle #OscarsSoWhite, l’Academy è corsa ai ripari aprendo a 683 nuovi membri, di cui il 46 per cento donne e il 41 per cento di colore. I risultati non si sono fatti attendere: accanto all’exploit afro nella categoria documentari, sono sette su venti gli attori e attrici non bianchi in lizza, tra cui Denzel Washington e Viola Davis per Barriere, Dev Patel per Lion, Ruth Negga per Loving, Octavia Spencer per Hidden Figures, nonché Mahershala Ali e Naomie Harris per Moonlight.
Due menzioni speciali meritano Meryl Streep e Mel Gibson: la prima conquista la ventesima nomination con Florence e guarda alla quarta statuetta; a 10 anni da Apocalypto e dopo plurime, ehm, intemperanze, il regista australiano si veste da figliol prodigo, incassa il perdono di Hollywood e ben sei nomination per il suo Hacksaw Ridge.
Infine, note positive per l’Europa: oltre a Fuocoammare e al film straniero con Toni Erdmann, A Man Called Ove e Land of Mine, gareggiamo con l’attrice protagonista Isabelle Huppert, alla prima nomination con Elle; la sceneggiatura originale di The Lobster del greco Yorgos Lanthimos e ben due animazioni, La mia vita da zucchina e La tartaruga rossa. Niente male, soprattutto quando il nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump predica il protezionismo: sì, sono politici questi Oscar.