Nel buio che avanza la breve vita di Giulio Regeni diventa una fiammella che rischiara, una piccola luce che aiuta a non perdere il sentiero. La sua figura di ‘ragazzo globale’ attrae e appassiona le nuove generazioni, testimonia sul Manifesto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty: ispira borse di studio a lui intitolate; e si comincia a riconoscerla come un asset della nostra politica estera, per quei sentimenti di riconoscenza fraterna che il ricercatore italiano suscita nella gioventù della ‘primavera egiziana’, futura classe dirigente di quel Paese, presso la quale Regeni è popolarissimo.
Tutto questo rappresenta un esito per nulla scontato, se consideriamo quanto imbarazzo continua a procurarci quell’assassinio, o più esattamente il suo incontestabile punto di partenza: il feldmaresciallo al-Sisi sa perfettamente, e dal primo giorno, chi ha ucciso Giulio; se dopo un anno continua a tacere, è perché la verità conduce proprio al sistema repressivo sul quale lui e il suo regime interamente si reggono. Questa ovvietà è il grande interdetto, l’elefante nella stanza: enorme, però dobbiamo fingere di non vederlo perché al-Sisi la prenderebbe male, e noi ci sentiamo vulnerabili tanto a rappresaglie economiche quanto a vendette militari e politiche in Libia. Comprensibile: ma allora perché fingersi determinati e forti? Per 6 mesi il governo Renzi ha chiesto al Cairo la verità con un vocabolario che oggi suona ridicolo. Alla prova dei fatti abbiamo rinunciato perfino a seguire il Dipartimento di Stato, che con un chiaro segno di sfavore verso al-Sisi in dicembre ha sconsigliato i viaggi in Egitto per motivi di sicurezza.
Un secondo motivo per distogliere lo sguardo dall’elefante nella stanza rimanda alle dichiarazioni di stima e di amicizia rivolte da Renzi ad al-Sisi quando già se ne conoscevano i record criminali, parole mai censurate dall’opposizione e nascoste da gran parte dell’informazione. Tuttora gli intervistatori di Renzi si guardano bene dal toccare l’argomento, si direbbe per proteggere non solo il segretario del Pd ma anche una linea di politica estera che assegna ad al-Sisi il ruolo di alleato necessario, in quanto baluardo contro l’islamismo e sodale del governo Netanyahu. Trump la vede nello stesso modo, non a caso uno dei suoi primissimi atti è stata una telefonata al feldmaresciallo, renzianamente definito non solo alleato ma anche amico. In realtà il nucleo della crisi egiziana è politico, non religioso, come Regeni aveva perfettamente intuito. Ma anche se il problema centrale fosse l’Islam, e non una casta militare che non vuole mollare il potere e quel 25-40% dell’economia nazionale cui è abbarbicata da decenni, colpisce l’indifferenza a clamorose violazioni di diritti umani che contagia il nostro Parlamento. Pure Grillo – nel 2013 tra i pochissimi a lamentare il silenzio intorno ai massacri compiuti da al-Sisi dopo il golpe – ora guarda con interesse all’amico dell’egiziano, Trump.
Si direbbe che nel crepuscolo dell’effimero Ordine liberale sbiadiscano anche valori universali minimi. Diventa normale proporre deportazioni di massa, scambiare sterminatori con liberatori, proclamare nostri amici notori assassini, vezzeggiare gli Uomini Forti, in genere tali perché hanno un’idea relativa dello Stato di diritto. Nel futuro prossimo il trumpismo contribuirà a consolidare questo modo di pensare in larghi segmenti dei tre maggiori partiti, un’area di ForDeLlati (forzisti, Dem e pentastellati) che su vari argomenti di politica estera già lasciano intuire impensabili affinità o analoghe convenienze. Ma allo stesso tempo invoglierà un’Italia opposta, oggi politicamente sparsa, a cercarsi un tetto. Parte di tutto ciò si rispecchia nella vicenda che muove dall’assassinio di Regeni, svelando cinismi e ipocrisie ma anche slanci sinceri nelle stesse istituzioni.
A prenderla a cuore è stato tra gli altri Sergio Mattarella, considerato un flebile. Tenderei a non sottovalutarlo. Quando l’ho incrociato, molti anni fa, aveva preso tanto sul serio l’incarico di commissario straordinario della Dc siciliana che alcuni pezzi da novanta del partito decisero di fermarlo per le vie politiche, parendo forse eccessivo fare ammazzare anche lui dopo il fratello. Vinsero, e a ragione di ciò Mattarella probabilmente è vivo. Ma un uomo cui è morto tra le bracia il fratello e accetta di correre lo stesso rischio, quando promette ai genitori Regeni il proprio personale impegno va preso sul serio.