“Estraneità a qualsiasi condotta di tipo corruttivo che possa essergli attribuita, anche solo in via ipotetica”. L’avvocato ed ex ministro della Giustizia Paola Severino sostiene che è questo l’unico risultato a cui si può arrivare per quanto riguarda la posizione del suo assistito, Claudio Descalzi, dopo aver esaminato le migliaia di pagine depositate dai pm di Milano al momento della chiusura delle indagini prima di Natale sul caso Eni-Nigeria.
La memoria difensiva di 11 pagine più allegati è stata depositata al Tribunale di Milano lo scorso 10 gennaio e si muove su due binari. Primo: dimostrare l’estraneità dell’ad Eni da ogni tentativo di far rientrare in Italia a beneficio di manager dell’azienda petrolifera parte dei soldi pagati in Nigeria. Secondo: ribadire che nel 2011 Descalzi si è limitato a trattare l’acquisizione del giacimento Opl245 con il governo nigeriano e quindi non può essere responsabile del fatto che, in un secondo momento, l’intera cifra pagata (1,092 miliardi di dollari) è finita non allo Stato ma a politici locali oggi sotto inchiesta in Nigeria e a presunti prestanome dell’allora presidente Goodluck Jonathan.
La linea difensiva di Paola Severino si regge anche sul fatto che nel 2011 Descalzi era direttore generale della divisione Exploration & Production di Eni, un ruolo che “non deve essere considerato come operativo, che implichi un costante coinvolgimento nei dettagli di ogni singola operazione”, visto che in quegli anni Descalzi seguiva varie operazioni a livello internazionale, non certo soltanto la Nigeria. Le decisioni strategiche – è il senso di questa linea – sono da imputare all’allora capo azienda, Paolo Scaroni, eventuali comportamenti censurabili in Nigeria soltanto ai dirigenti operativi sul campo, come Roberto Casula e Vincenzo Armanna.
Descalzi però della trattativa si è occupato parecchio, riconosce anche la Severino, “nel tentativo di ottenere la massima chiarezza sui fatti e sulle parti in causa, fino a bloccare l’operazione ormai arrivata a conclusione nel novembre 2010 e poi nel marzo 2011, perché non era trasparente la compagine societaria della Malabu, detentrice della licenza, e a eliminare ogni intermediario, compreso Emeka Obi, per concludere l’accordo direttamente con il governo nigeriano, proprio per avere la massima garanzia di chiarezza e legalità”. In realtà Descalzi, come tutta l’Eni, sapeva benissimo dal 2007 chi ci fosse dietro la Malabu, cioè l’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete che nel 1998 aveva assegnato alla propria società gestita da prestanome la concessione per il giacimento Opl245 e poi aveva cercato di monetizzarla, trattando con le compagnie occidentali. Quello che la Severino sta dicendo ai pm, però, è che se anche i tentativi d’acquisto del 2010 e del 2011 nascondevano uno schema corruttivo centrato sul mediatore Emeka Obi (che secondo l’accusa avrebbe dovuto poi distribuire soldi a Paolo Scaroni e al suo amico Luigi Bisignani), Descalzi ha lavorato per far saltare quell’operazione. Non per trarne profitto. Questa è la parte più debole dell’impianto accusatorio: non c’è traccia di soldi rientrati in Italia per i vertici dell’azienda e neppure per Bisignani (Vincenzo Armanna invece ha ricevuto quasi un milione), perché Obi è stato escluso dalle trattative quando è stato lo stesso governo nigeriano di Goodluck Jonathan a proporsi come intermediario tra Eni e Malabu.
Certo, ci sono state pressioni di Luigi Bisignani, che – hanno scritto i pm – dava “indicazioni circa i comportamenti da tenere nella trattativa”. Ma “appare evidente” che Descalzi, si legge nella memoria difensiva, “non ha assolutamente recepito alcun suggerimento, comportandosi in maniera totalmente autonoma, addirittura sospendendo la trattativa proprio nel periodo al quale risalgono alcune delle conversazioni telefoniche enfatizzate negli atti di indagine”. Infatti Eni finisce per trattare soltanto con il governo nigeriano.
E qui arriviamo al secondo filone di accuse: Descalzi era consapevole che i soldi non sarebbero andati allo Stato della Nigeria ma all’ex ministro Dan Etete e, attraverso vari passaggi, a politici nigeriani e a un presunto prestanome del presidente che ha presto 523 milioni?
“Non risulta negli atti delle indagini il seppur minimo riferimento” al manager “dopo la conclusione dell’operazione”, scrive l’avvocato Paola Severino. Agli atti c’è però un’indagine indipendente commissionata da Eni ad avvocati americani che dimostra come l’azienda sapesse di un accordo del governo per trasferire l’intera somma ricevuta alla Malabu di Dan Etete. Ma lo schema è costruito bene, il ruolo del governo garantisce un diaframma di legittimità e la Severino può rivendicare che per quanto riguarda Descalzi “non c’è alcun riferimento nella percezione di somme, nella distribuzione di somme a pubblici ufficiali o nel rientro di somme a manager Eni”. Ora tocca al giudice decidere se accettare la richiesta dei pm di mandare Descalzi, e altre dieci persone, a processo.