“Oddio c’è la scissione nel Pd e io non so cosa mettermi” sembravano dire la sera del 13 febbraio le facce pensose, corrucciate, desolate ma in fondo sollevate dei piddini che all’uscita dalla Direzione Allargata provavano a dare un senso alla giornata e un titolo ai giornali. In un partito indeciso a tutto la scissione è come tra le coppie annoiate la separazione in un regime fiscale favorevole: conviene a entrambi perché no?
In questo caso c’è un sistema elettorale proporzionale che un tre per cento per sedere in Parlamento non lo nega a nessuno. Figuriamoci ai D’Alema, Bersani, Speranza convinti che una buona fetta del sessanta per cento dei No al referendum costituzionale gli spetti di diritto. Figuriamoci a Matteo Renzi che parlando di scissione con la leggerezza appunto del coniuge stanco di vedere l’altro ciabattare per casa mancava solo aggiungesse: sbrigatevi.
Ora, nella discussione nel partito di maggioranza relativa, tutta quanta di ceto politico, nessuno si preoccupa degli 8 milioni 644mila elettori che nelle ultime politiche del 2013 votarono Pd. O dei 2 milioni e 800mila cittadini che parteciparono alle primarie vinte da Renzi. O dei circa 380mila iscritti al partito del 2016 (previsti in calo nell’anno in corso). L’opinione di quella che una volta era definita con un certo rispetto “la Base” appare (e non da oggi) del tutto irrilevante ai frequentatori del centro congressi di via Margutta, strada celebre per le gallerie dedicate ad astrattismo e surrealismo.
Potrebbero sembrare osservazioni passatiste e abbastanza patetiche se il cosiddetto “populismo” non fosse continuamente evocato da astrattisti e surrealisti come il pericolo mortale per le democrazie e anzi la negazione stessa della civiltà. Eppure per comprendere da dove scaturisca l’energia che muove la nuova barbarie basterebbe riascoltare Donald Trump, il più barbaro di tutti, nel suo discorso d’insediamento alla Casa Bianca là dove egli dice: “Oggi trasferiamo il potere da Washingon D.C. restituendolo al popolo”. Detto fatto poiché l’orrendo pupazzo dai capelli gialli ha nei primi dieci giorni della sua presidenza cominciato a mantenere le principali orrende promesse fatte ai suoi elettori: dal muro col Messico allo stop immigrazione. E se giudici e messicani non sono d’accordo, ciò non fa che rafforzare il rapporto sentimentale tra The Donald e i suoi elettori, i quali possono dire: lui sì che mantiene gli impegni, sono quegli altri a non volere il bene dell’America.
Vedrete, lo stesso farà l’orrenda Le Pen se dovesse vincere le presidenziali in Francia con l’uscita dall’Euro e le frontiere sigillate. Così la premier Teresa May (che populista non è) ha subito avviato l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue come chiesto, pensate un po’, dalla maggioranza degli elettori. Dunque, battere il cosiddetto “populismo” si può: basta non tradire gli impegni presi con il popolo, non dimenticarsi di essi già il giorno dopo la proclamazione dei risultati.
Tornando in Italia per rispettare il volere degli elettori sarebbe stato sufficiente, per esempio non archiviare il plebiscito del 4 dicembre tra le varie ed eventuali. Con la beffa del governo fotocopia Gentiloni composto dagli stessi medesimi ministri renziani non meno coinvolti nella solenne bocciatura popolare. Fregarsene allegramente di chi ti ha dato fiducia non è mai gratis e il conto salato il Pd aveva cominciato a pagarlo con le amministrative della scorsa estate.
Come reagirebbe adesso una Base mai consultata se messa di fronte a una rottura traumatica appresa dai giornali? Al di là dei calcoli di bottega i due Pd frutto dell’eventuale scissione difficilmente saranno la somma aritmetica dei consensi raccolti dal’attuale partito.
La storia politica italiana insegna che quasi sempre una forza si scinde in due debolezze. Voti smarriti che gioveranno soprattutto ai 5Stelle, cioè proprio a quei populisti brutti e cattivi contro cui il Pd di via Margutta chiede la chiamata alle armi. Si chiama eterogenesi dei fini. Ma anche suicidio.