Quella convocata per domenica potrebbe essere l’ultima Assemblea del Partito Democratico nella sua forma (più o meno) originaria e la prima del Partito Democratico che sarà. Una specie di Partito di Renzi, sia secondo Pier Luigi Bersani, sia nelle intenzioni dell’ (ancora) segretario. Nella realtà – e nelle preoccupazioni di molti tra i Democratici – magari solo un ex Pd, un partitino da Prima Repubblica. Adatto a un sistema proporzionale, nel quale nessuno vince davvero e le grandi coalizioni sono obbligate. Vada come vada e sia quel che sia, ieri l’ex premier è andato per la sua strada e ha fatto convocare il parlamentino dem per domenica, a Roma, all’Hotel Parco de’Principi. In origine doveva essere sabato, ma le telefonate hanno chiarito che per garantirsi un numero minimo di presenze è meglio domenica. Mentre Renzi disegnava il suo percorso, la minoranza si avviava all’uscita. Domenica non ci sarà. Nonostante il tentativo di mediazione di Dario Franceschini, che ha lavorato per convincere il segretario a concedere qualche settimana in più per il congresso. Ma Renzi oltre metà maggio non vuole andare, convinto che serva un mese tra le primarie e le Amministrative, previste a giugno (data ancora da stabilire). Gli scissionisti vogliono ottobre. E lui non cambia idea: domenica si dimette per un congresso il più veloce possibile. La prima incognita però è proprio l’Assemblea: i renziani sono certi di riuscire a portare il numero legale (501, la metà più 1 dei componenti), senza il quale la decisione non è esecutiva. Ma i prossimi giorni si annunciano frenetici. Con una serie di “tessitori”.
Dario Franceschini. Quando il potente ministro della Cultura abbandona la barca, vuol dire che quella affonda. Fu così quando mollò Bersani, dopo le elezioni “non vinte” del 2013. Fu così quando abbandonò Letta per salire sul carro di Renzi candidato segretario e pronto a scalare Palazzo Chigi. Ora, Franceschini sta ancora con il segretario: in cambio del suo appoggio ha ottenuto la promessa che non si voti a giugno. Questa la parte più visibile dell’accordo: ma il fu “vice-disastro” (copyright Renzi, qualche anno fa) ha 90 parlamentari a cui garantire un futuro. Peraltro, dall’inizio, si è fatto garante con Sergio Mattarella di garantire una legge elettorale. E, più in generale, di non far esplodere il sistema.
Paolo Gentiloni. Il premier lunedì si è seduto accanto a Renzi al tavolo della presidenza e lì è rimasto, anche mentre il suo predecessore a Palazzo Chigi non spendeva neanche una parola in lode del suo governo e anzi sosteneva la necessità di un esecutivo più forte per trattare in Europa. Il presidente del Consiglio con il segretario che l’ha voluto dov’è ha un patto di ferro: se l’altro gli chiede un passo indietro, lo farà. Nel frattempo, però, deve governare. E per farlo, la scelta è farsi vedere e sentire il meno possibile: fatti e non politica. Una strategia che fino adesso ha funzionato: ma cosa sarà del suo esecutivo, di fronte a una scissione e a un congresso, con una campagna elettorale di Renzi tutta da inventare, con il rischio che proprio le scelte del governo diventino un bersaglio?
Andrea Orlando. “Se ci si divide sulla leadership o sul calendario, questo rischia di essere patologico”. Così ha detto anche ieri il ministro della Giustizia. Dopo un intervento in direzione in cui ha tentato di mediare, invitando tutti a discutere di contenuti in una Conferenza programmatica. Ora molti guardano a lui come al “Salvatore della Patria”: se si candidasse contro Renzi potrebbe evitare la scissione. Su di lui Giorgio Napolitano ripone le recondite speranze di arginare l’avanzata di Grillo e l’impazzimento del sistema in blocco. Il Guardasigilli sta parlando con tutti (anche con Bersani), ma sa benissimo che – una volta che Delrio e Franceschini hanno deciso di stare con Renzi – non può apparire come il candidato della vecchia guardia, di D’Alema & co. Il pressing su di lui è alto. Tanto è vero che nessuno è pronto a scommettere che – anche se gli altri se ne vanno e lui resta dentro – appoggerà Renzi.
Gianni Cuperlo. Lunedì in direzione ha fatto l’intervento più “radicale”: “Matteo, il punto è se la tua politica sia quella giusta per sconfiggere la destra”. Un tempo candidato contro Renzi per la vecchia guerra, poi presidente del Pd, poi dimissionario, poi annesso alla causa del Sì al referendum, sta faticosamente cercando una soluzione per il Pd (e per sé). Dunque, media, nel tentativo di evitare la scissione. Ma è pessimista. Domenica in Assemblea ci sarà.
Michele Emiliano. Erano settimane, se non mesi, che il Governatore della Puglia preparava la sua battaglia contro Renzi. “Mi candido segretario”, ha detto anche lunedì in direzione. È stato lui a provocare l’accelerazione del dibattito quando è andato da Lucia Annunziata a dire che se l’ex premier non avesse convocato il congresso sarebbe stato il segretario a scindersi dal Pd. Se scissione sarà, il suo è un bivio amaro: o uscire con D’Alema e Bersani e giocare una partita che non è la sua, oppure restare e rischiare davvero di fare lo sfidante perfetto. Voleva costruire il partito del Sud, sognava Palazzo Chigi: chissà se è già finita.