“Che rumore fa una pallottola contro un cranio?”, è la domanda chiave della lunga intervista di un reporter (nella realtà Theodore White) che ci conduce, in un percorso realistico, onirico, lucido, febbrile, in sospeso fra confessione e analisi, a conoscere Jacqueline Lee Bouvier, detta “Jackie”, la moglie ammirata e imitata del presidente John Fitzgerald Kennedy assassinato a Dallas il 22 novembre 1963. L’intervista conduce il gioco del film ormai celebre.
In quell’intervista, fantasmi si aggirano, si sovrappongono, si sdoppiano, scivolano l’uno nell’altro, si trasformano come se ogni volta la narrazione ricominciasse da un altro punto, con un altro sguardo.
In Jackie di Pablo Larraín, un film che non assomiglia a niente, di un regista che non assomiglia a nessuno, Larraín chiude in un contenitore perfetto un caleidoscopio umano in cui una sola figura, evoca, anzi è, un mondo di folla, di festa, di mondanità, di potere, di esaltazione, di celebrazione, e di morte. Siamo nella solitudine di una elegantissima Casa Bianca diventata la casa vuota di un funerale, dove tutto (nella mente, nella testa, negli occhi) è schizzato di sangue. Come per un esperimento crudele, la mano del regista rimuove ciò che non manca mai in un luogo di agio e di potere: il sostegno e la compagnia di tante persone, chi ti ama, chi ti serve, chi lavora, chi è di turno, chi è accorso, chi vuole esserci, chi deve esserci. Via tutti, via dalla ricostruzione e dalla memoria, ordina il regista, che ammette solo il passaggio di Robert Kennedy, di Jack Valenti (l’uomo di Johnson). E brevi, duri incontri con chi deve organizzare il corteo funebre.
Jackie-Natalie Portman, una giovane donna calma, febbrile e rivestita di una gelida angoscia, non vuole, per tutto l’inizio della narrazione, liberarsi dal sangue sul volto, dal sangue sugli abiti, per non tagliare l’ultimo legame che la tiene unita al corpo del marito assassinato. È stato colpito per ragioni che riguardano la Storia, non loro due, le loro feste, la loro vita, il loro pieno controllo di eventi grandiosi.
Pablo Larraín segue un percorso misterioso, come una messa per un non credente. Le cose avvengono secondo un rito che non conosci e che, anche se è ripetitivo, non genera noia, ma al contrario, attesa, tensione. Niente è sorprendente ma niente è prevedibile. Il regista è fermo e autorevole, in questo film, e ti induce a rispettare le regole stabilite: la Casa Bianca è vuota, nessuno degli amici fraterni, che erano anche i consiglieri politici del presidente assassinato (e che nella realtà c’erano), sono presenti, nel film. I figli sono più piccoli e più estranei, rispetto alla storia e alla memoria. Questo rito richiede che Jackie – regina – sia sola in una vasta zona di vuoto improvviso.
Tutto è cessato quando la pallottola ha colpito e spezzato il cranio di Jack (Jack e Jackie si chiamavano l’un l’altro): la vita pubblica, la vita privata, la vita di coppia, la vita in vetrina, la vita nella Storia, la vita come una corsa, come un ballo, come una caccia al tesoro, come una crociera, come un lungo volo dove tutto deve ancora accadere. Sola vuol dire che Larraín ci chiede di osservare e ascoltare con attenzione la straordinaria matrioska che la sua narrazione ci presenta. Dentro la giovane donna insanguinata c’è la First Lady che sorride cauta accanto al presidente più importante del mondo, c’è la donna elegante che cambia da sola la moda americana, c’è la protagonista che ottiene immediata attenzione, c’è la compagna che inventa un suo ruolo accanto all’uomo che, come lei, ha molto fascino, che è altra cosa dal potere e dalla politica. Ecco l’espediente del film che – nella lunga e tesa narrazione dell’intervista – sovrappone John Kennedy ferito a morte al corpo insanguinato di Jackie, e rende inevitabile per Jackie lo sforzo (una immensa contraddizione tra amore, dolore, stupore e continuazione della vita) di liberare se stessa, per tornare a un doloroso e incomprensibile presente.
Perché incomprensibile? Perché Jackie deve rendersi conto che su loro due, la favolosa coppia Kennedy, è passato il colpo di maglio selvaggio della Storia. Jackie ha voluto esserci, nella Storia, facendo fino in fondo la sua parte di First Lady. E ora si accorge che non può, non deve uscirne, e per questo intende dirigere nei dettagli il funerale di Jack, fronteggiando persino Bob Kennedy e il nuovo presidente. Ricordiamoci che sul fondo di quella che il regista intende mostrarci come la mente allo stesso tempo spezzata e lucida della First Lady (come nella follia) tornano a esplodere i due spari, la testa che si spacca e si abbatte sul grembo di Jackie, e la domanda “che rumore fa una pallottola contro il cranio?”.
Comincia in quell’istante un altro periodo della Storia, che sarà per sempre diverso, sempre più oscuro e meno comprensibile. In questo senso non è vero che il film del sorprendente regista cileno Pablo Larraín volti le spalle all’inchiesta. Al contrario. Nel film Jackie viene chiamata a ripeterci, nella intervista, in parte vera, in parte inventata, che quell’assassinio stava dividendo la Storia in un prima (Camelot, la leggenda del regno felice e immortale di re Arthur, il musical adorato da Kennedy) e in un dopo in cui ci hanno esortati a entrare nel lungo tunnel in cui siamo tuttora trattenuti. C’è chi, nel recensire il film di Larraín, si è domandato se Camelot fosse davvero il musical prediletto da Kennedy o una intelligente invenzione di Jackie nella vera intervista con Theodore White per Life Magazine.
A New York, qualcuno ricorda ancora che quando il pubblico del teatro di Broadway si è reso conto della presenza dei due Kennedy in sala, lo spettacolo è stato interrotto da uno scroscio di applausi. E Richard Burton, il protagonista di Camelot, ha ripetuto per Jack e per Jackie la famosa canzone, che era già il simbolo di quella presidenza.
Per questo Larraín ha dovuto creare, per la colonna sonora, due piani diversi, le musiche di due mondi incomunicabili, qualcosa di simile all’espediente dell’intervista che sovrappone il vero, il verosimile e l’immaginato, a eventi storici che intanto si stavano compiendo. Mica Levi è l’autore di un flusso musicale che è più la narrazione di un’ansia senza pace e senza cura, che evocazione del lutto. Per questo la contrapposizione della breve canzone di Camelot alla lunga striscia musicale dell’affanno, dominato con caparbio furore, dal personaggio Jackie e dall’attrice Portman, rende il film testimonianza e documento da ricordare.