Macché Warren Beatty e Faye Dunaway. E nemmeno Brian Cullinan, il socio di PwC (per quanto ancora?) che impegnato a cinguettare – aveva appena twittato la foto della premiata Emma Stone – ha consegnato a Beatty la busta sbagliata, da cui l’erronea e temporanea attribuzione della statuetta più ambita a La La Land anziché a Moonlight. No, la vera vittima della cerimonia degli 87esimi Academy Awards è un’altra, e non l’hanno decretata né l’età che avanza – Beatty e Dunaway hanno denunciato riflessi da accompagno – né un tweet sborone: Toni Erdmann, il fin lì pluripremiato e celebrato film della tedesca Maren Ade.
Nel ruolo del carnefice il presidente Donald J. Trump, per mannaia il suo Muslim Ban, che interdice l’ingresso negli States ai cittadini di sette Stati a maggioranza islamica, tra cui l’Iran.
A farne le spese l’incolpevole e pregevole Toni Erdmann (da noi Vi presento Toni Erdmann), che al Dolby Theatre di Los Angeles entrava con il favore dei pronostici: cinque European Film Awards in bacheca, la freschissima vittoria agli Spirit Awards, e la statuetta per il miglior film straniero quale dulcis in fundo, perché no?
Invece no, il Muslim Ban ha cambiato le carte, ovvero i film, in tavola, e l’Oscar è andato a Il cliente di Asghar Farhadi, già insignito di analogo riconoscimento per Una separazione (2011). Assente per protesta contro l’ordine esecutivo di Trump, di Farhadi abbiamo sentito per voce altrui un acceptance speech condivisibile, soprattutto nel passaggio “Dividere il mondo tra noi e i nostri nemici crea paura”, ma parziale: crea anche premi sbagliati. Seppure più che discreto, Il cliente non è il lavoro più riuscito dell’autore persiano: la congiuntura politica ha scippato il povero Toni Erdmann, il Muslim Ban s’è tradotto al Dolby Theatre in German Ban, alla faccia delle origini tedesche dello stesso Trump.
Vendicatelo, andate a vederlo, merita assai. Innanzitutto, non assomiglia a nient’altro, non ha fratelli né parenti prossimi, e – la definizione è di un’amica – sembra di ascoltare una voce stonata su una melodia incantevole. A stonare, con classe e godimento, è un insegnante di musica, Winfried (Peter Simonischek, formidabile attore austriaco di teatro), che si preoccupa per la vita grama della figlia workaholic Ines (Sandra Hüller, wow), impegnata presso una società di consulenza a Bucarest. Winfried è solo, burlone e non ha molti motivi per starsene lontano dalla figlia: alla morte dell’amato cane, parte per la Capitale rumena, dove la sua presenza ingombrante e chiassosa è da subito motivo di grande imbarazzo e disagio per Ines.
Già, la convivenza non può durare, Winfried deve andarsene e lo fa, ma allora chi è quel sedicente Toni Erdmann, che forte di denti finti e improbabile parrucca si spaccia alternativamente per uomo d’affari o ambasciatore teutonico? In realtà, Toni non è (solo) un disturbatore, ma uno scandagliatore, forse addirittura un salvatore: intemperanze, intromissioni e sovvertimenti individuano e stigmatizzano tutto quel che non va nella vita di Ines, imbrigliata da colleghi maschi stronzi e cattivo sesso, finte amicizie femminili e qualche riga di coca.
Già, Toni è il padre buffone che dice che la figlia reginetta è nuda – la vedremo tale, non a caso, nella sequenza più disturbante e divertente dell’anno – e chi ha orecchi e occhi per intendere aguzzi e si specchi. Eppure, l’intento non è moralizzante, fustigante, serioso, al contrario, gli scherzi, le burle e il nonsense di Toni si accompagnano sul piano metalinguistico alla presa in giro, al farsi beffe del cinema d’autore troppo compreso di sé. Toni Erdmann racconta in commedia una storia drammatica, che senza questi frizzi istrionici e lazzi amari si sarebbe risolta in reprimenda sulla condizione femminile nel mondo del lavoro: le canoniche due palle, o il solito impegno senza sorprese né via d’uscita.
Viceversa, Toni Erdmann è un ufo feroce e tenero insieme, sballato ed estenuante, empatico e imbarazzante: attori superbi (la cover di The Greatest Love of All di Whitney Houston della Hüller è da brividi), coraggio stilistico, radicalità poetica (dura 162’) e… maledetto Trump!