Una stanza tutta per sé” in piazza Santa Maria la Nova. Era la casa di zia Lia e zia Bianca, due sorelle non sposate che, dopo essersi prese cura della mamma di Pino, tirarono su anche il primo di sei figli di una famiglia umile del centro storico. Allora si usava affidare i propri bambini a famiglie più agiate per garantire loro un futuro migliore. E grazie alle “zie” benestanti Pino riuscì a diplomarsi in ragioneria all’istituto Diaz in via Tribunali. Traguardi impensabili per una famiglia numerosa come quella di Pino Daniele, per gli amici Pinotto. Credo che proprio questo connubio abbia contribuito alla sua forza espressiva: da una parte l’anima popolare della famiglia di origine da cui non si è mai distaccato e dall’altra il contesto piccolo borghese delle zie che gli hanno donato gli strumenti per elaborare il proprio universo poetico.
Un universo che il regista Giorgio Verdelli ha raccontato nel suo docufilm, Il tempo resterà, prodotto da Sudovest con Rai Cinema, nelle sale per tre giorni dal 20 al 22 marzo. Un viaggio emozionale tra i suoi amici e le sue canzoni per cogliere e riscoprire la sensibilità artistica di uno dei più grandi autori italiani. Quando Giorgio Verdelli mi ha chiamato per un contributo all’interno del suo film, ho voluto fortemente che si girasse anche a Scampia, il mio quartiere, all’interno della vela gialla. L’obiettivo era tenere insieme le periferie e il centro nel segno di Pino.
Napoli racchiude in sé tante città e tante anime contrastanti. La Napoli dei “Lazzari felici” di Masaniello contrapposta alla nobiltà, quella della plebe incolta e feroce che massacrò l’avanguardia rivoluzionaria del 1799. Napoli è anche il “Bronx minore” dello scrittore Peppe Lanzetta, la “Gomorra” di Saviano, quella noir di Maurizio de Giovanni, la periferia di Valeria Parrella e infine Posillipo e palazzo Don’Anna di Raffaele La Capria. Questi mondi sempre divisi per cultura e ceto sociale sono uniti solo dal dialetto.
Alla fine degli anni Settanta Pino Daniele ripartiva proprio dal dialetto per rinnovare la tradizione della canzone classica napoletana, ma la sua lingua non era quella colta dei grandi interpreti e autori borghesi ma quella sporca della strada. Con una poesia e una musicalità rara in quegli anni, arrivava a chiunque: al professionista e al borghese di Posillipo così come al sottoproletariato di Scampia, Ponticelli, Barra, Forcella.
Sdoganando il dialetto parlato Pino riportava la canzone napoletana alla ribalta prima nazionale e poi internazionale. Era trasversale, antico e moderno grazie a un linguaggio semplice ed evocativo. Come per la Jamaica Bob Marley, Pino Daniele è stato l’unico artista italiano a essersi identificato completamente con un intero popolo incarnandone l’orgoglio, la rabbia, i sogni e il riscatto. E per i non napoletani bastava lasciarsi rapire dall’atmosfera delle canzoni e dalla musicalità delle sue parole che arrivavano prima dello stesso significato.
Non a caso il trailer del film di Giorgio Verdelli si apre proprio con le immagini di un vecchio concerto dove dalla platea uno spettatore gli urla: “impara a parlare”, e Pino gli risponde: “Ah nun fa niente parla’, l’importante è sape’ suna’.” Parole come “Appocundria”, “Alleria” racchiudevano il sentimento profondo di una cultura. Da quel momento anche i terroni che erano stati costretti ad emigrare a Torino e a Milano per trovare lavoro, non furono più napoletani di merda, non parlavano più un dialetto incomprensibile, ma la stessa lingua di Pino Daniele. Il dialetto che univa le tante città trovò la sua voce in quella di Pino Daniele e se ne accorse tutta l’Italia.