Dall’esito dell’inchiesta Consip dipende buona parte del futuro della magistratura italiana e della libertà di stampa. Se le indagini sulla fuga di notizie e sul traffico d’influenze, che vedono tra i protagonisti il braccio destro di Matteo Renzi, il ministro Luca Lotti, e suo padre Tiziano, finiranno in un nulla di fatto nella prossima legislatura accadrà di tutto. A raccontarcelo sono gli umori, i comportamenti e le parole utilizzate dal popolo del Lingotto e dal loro leader.
Ormai da settimane crescono le analogie tra i ragionamenti di molti renziani e quelle dei fedeli di Silvio Berlusconi. Principi come l’etica nella gestione della cosa pubblica, la moralità dei partiti e il diritto degli elettori di essere informati vengono o messi in discussione o ignorati. Si finge di non sapere che garantismo deve sempre valere nelle aule di tribunale, dove l’imputato va condannato solo al di là di ogni ragionevole dubbio, ma che in politica valgono invece criteri di elementare prudenza. Perché l’interesse generale da proteggere non è quello degli eletti di restare al loro posto (legge Severino permettendo), ma quello dei cittadini di non rischiare, anche potenzialmente, di essere amministrati dei delinquenti o da dei loro amici.
Proprio per questo, nelle democrazie mature, l’establishment politico ha tra i suoi compiti quello di valutare, caso per caso, chi ha scelto di farne parte: non sempre essere indagati comporta l’obbligo di dimissioni, non sempre non esserlo dà il diritto di sedere su una poltrona importante. Questo concetto era chiaro anche a Renzi fino a qualche tempo fa. Sotto altri governi i seguaci dell’ex premier chiesero giustamente e inutilmente le dimissioni del ministro Angelino Alfano per il caso Shalabayeva, pretesero e ottennero quelle del ministro Josefa Idem e quando il ministro Federica Guidi si fece da parte, senza nemmeno essere sotto inchiesta, plaudirono alla sua “responsabilità istituzionale”.
Ora tutto è cambiato. Vince il falso garantismo. Che, alle prossime elezioni politiche, porterà verosimilmente a contro-riforme condivise tra Pd, Forza Italia, alfaniani e verdiniani (la probabile futura alleanza di governo) per controllare l’attività dei pubblici ministeri e imbavagliare la stampa. Le prove generali le abbiamo già viste: la norma introdotta di nascosto per costringere gli investigatori a riferire in tempo reale e in via gerarchica il contenuto delle indagini ai vertici delle forze di polizia (di nomina governativa), la decisione di non far andare in pensione una serie di alti magistrati (ritenuti particolarmente affidabili) e non tutti gli altri, la futura legge delega sulle intercettazioni con tetto di spesa annuale prefissato.
Molto però, dicevamo, dipende dall’esito dell’inchiesta Consip. Visto che l’affarismo e i fatti fin qui emersi sono difficili da negare, si spera in una soluzione processuale che li faccia dimenticare.
Legittimamente le difese batteranno due strade. Tentare di far dichiarare inutilizzabili per l’ipotesi di traffico d’influenza le intercettazioni concesse per un reato più grave (la legge è nuova è non c’è quasi giurisprudenza) e far sì che Luigi Marroni, il manager renziano testimone chiave contro Lotti, interrogato dagli avvocati dica qualcosa di auto-indiziante. Se finisce indagato le sue parole avranno tutto un altro valore. E l’inchiesta, resa difficilissima dalle fughe di notizie pilotate, finirà per sgonfiarsi. Solo dal punto di vista penale, ovvio. Ma in tempi di etica pubblica gettata all’ortiche questo a Renzi basta e avanza.