La settimana politica che si chiude col salvataggio incrociato di Lotti&Minzolini (il famoso “scambio di prigionieri”) si era aperta domenica con la kermesse di Matteo Renzi per rilanciare se stesso in un Lingotto che doveva apparire dorato ma non troppo “altrimenti ci dicono che non siamo di sinistra”. E lì già si poteva capire tutto, visto che l’ex premier ed ex segretario del Pd non aveva fatto altro che confermare la sua ormai inguaribile difficoltà nel trovare un’identità politica: ammiccando a sinistra ma continuando al contempo a mostrare un’invincibile idiosincrasia per la storia che lo precede. “Siamo eredi, non reduci”: con questa excusatio non petita aveva aperto il suo discorso per tentare di ricucire con quella tradizione da cui finora aveva sempre ostentato di essere “scampato” per miracolo. Una discolpa preventiva volta a suturare le innumerevoli ferite inferte al grembo in cui oggi, suo malgrado, si trova costretto a restare.
Le cose, infatti, sono andate diversamente da come lui pensava che dovessero andare: quel PdR (Partito di Renzi), di cui, dopo l’azzardata deduzione che il 41% di Sì al Referendum fosse direttamente traducibile in voti alla persona, e dopo la dipartita degli scissionisti si dava per certa la nascita, sembra essere diventato un miraggio. La virata finale di Michele Emiliano che ha deciso di rimanere nel partito e candidarsi alla segreteria e la successiva discesa in campo di Andrea Orlando, che da pacioso ministro amico si è trasformato in contendente gradito all’albero genealogico – quercia o ulivo che sia – del centrosinistra, hanno dato alla corsa alle primarie un indirizzo inatteso: i due contendenti hanno spostato, ognuno a suo modo, chi col linguaggio chi con gli attestati di partito, l’ago della bilancia verso sinistra, costringendo il fu Rottamatore a coprirsi il fianco a manca, rinunciando alla sapida libertà d’azione pregustata al momento del congedo delle zavorre bersanian-dalemiane.
In questa direzione s’inserisce l’anomalo ticket con Maurizio Martina, volto a vampirizzare il già emaciato ministro dell’Agricoltura suggerendone gli estratti diessini, per prolungare ancora un poco la lunga notte del Vampiro di Rignano prima che il sole arrivi e lo tramuti in cenere.
Un ultimo voucher insomma per retribuire il lavoro occasionale di tipo accessorio svolto dall’accessorio Martina, sempre che non si voglia spacciare l’attuale Pd per una famiglia e farlo passare per uso familiare, e poi pronti ad un bel decreto che passi la spugna sui voucher e scongiuri il referendum del 28 maggio voluto dalla Cgil. Non è più tempo di fare braccio di ferro con tutti i corpi che orbitano nella galassia della sinistra trincerandosi nei confini programmatici del PdR, perché questa rischia di essere #lavoltabuona in cui si cappotta davvero.
La questione ormai ha preso una piega cromatica: l’aspirante segretario ha concluso la tre giorni asserendo come la bandiera rossa non rappresenti la sinistra, ma sia piuttosto diventata una macchietta politica; al contempo però ha capito che la camicia bianca con cui siglò il patto del giovane riformismo arrembante con gli ormai sepolti Manuel Valls, allora premier francese, Pedro Sanchez, ex segretario dei socialisti spagnoli e Diederik Samson, al tempo presidente dei laburisti olandesi, all’insegna della modernità a tutti i costi e dell’amnesia programmatica delle proprie origini, non è stata la ricetta vincente per colonizzare il futuro.
L’esperimento del Lingotto è stato quello di infilare, senza pensarci troppo e senza avere un progetto preciso, sia la camicia bianca sia la bandiera rossa nel cestino della lavatrice: il rischio è che ne escano fuori due straccetti rosa pallido.