Il segretario dell’Anm Francesco Minisci ieri con il Fatto ha evidenziato che nella riforma penale, approvata al Senato e tornata alla Camera, c’è un limite superiore, rispetto a quello definito dalla Cassazione, per quanto riguarda il trojan, l’intrusore informatico che permette di accendere il microfono di un computer. Il limite è stato ampliato dal governo che ha la delega per i decreti attuativi in materia di intercettazioni.
Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina, è un magistrato antimafia da sempre in prima linea. Con lui entriamo nel dettaglio per capire le conseguenze sulle indagini: “È indubbio che il governo vada molto oltre nel limitare l’utilizzo dell’intrusore informatico. La Cassazione ha delimitato l’uso per la criminalità organizzata mafiosa, terroristica e semplice, invece, nel ddl penale, l’uso del trojan si prevede esclusivamente per mafia e terrorismo, salvo che si stia compiendo un reato”.
Ci può fare un esempio?
Non potremo più usare, a differenza di oggi, l’intrusore informatico per tutti i reati commessi dai colletti bianchi in forma associata: corruzioni, peculato, truffe. E i casi di questo genere in cui ci imbattiamo sono moltissimi.
Perché il trojan per voi pubblici ministeri e polizia giudiziaria è uno strumento di indagine così importante?
Perché, a differenza dei reati di mafia e terrorismo, dove spesso ci si avvale di collaboratori di giustizia e di altre fonti, in Italia i reati di corruzione e più in generale dei colletti bianchi, sono reati per i quali non esistono né denunce né testimonianze. Quindi, diventa fondamentale la captazione anche attraverso il computer per ascoltare le conversazioni di chi ha commesso questi reati in forma associata.
Anche perché molti corrotti e corruttori hanno imparato a non parlare al telefono…
È proprio così. Possiamo dire che con questo limite presente nel disegno di legge si potrebbe chiudere l’ultimo varco dal quale accedere per avere le prove di molti reati dei colletti bianchi. E questo perché in Italia contro la corruzione non si possono fare operazioni sotto copertura e non c’è, per questo tipo di reati, un regime premiale adeguato nei confronti di chi volesse collaborare. Inoltre, con la delega, il governo impone un altro limite.
Dica.
Non si possono utilizzare le intercettazioni con il captatore informatico se, per esempio, durante un’indagine per mafia, mi imbatto in un altro reato. Si introduce, così, una disparità rispetto alle intercettazioni telefoniche e ambientali che hanno valore di prova anche per altri reati, se un pm li scopre durante uno stesso procedimento.
Se la riforma fosse già stata legge, la sua indagine sui cosiddetti corsi d’oro in Sicilia che fine avrebbe fatto?
Avremmo perso qualche prova perché abbiamo usato il captatore informatico ed era contestato il reato di associazione per delinquere semplice e non mafiosa.
Cosa pensa di questa riforma nel suo complesso?
Rende più difficile il funzionamento della giustizia fino a mettere in ginocchio le procure se si guarda all’obbligo di definire le richieste di rinvio a giudizio o archiviazione entro i 3 mesi dalla fine di un’indagine, pena l’avocazione alle procure generali che hanno molti meno magistrati. Così si sottrae tempo alle indagini più delicate.
Qual è la logica del legislatore?
Una logica non c’è. L’effetto è sicuramente quello di rendere la giustizia impraticabile e i cittadini che la vedranno funzionare ancora peggio se la prenderanno, probabilmente, con i magistrati, sbagliando obiettivo perché i magistrati devono applicare le leggi approvate dal Parlamento.
Lei ha fatto parte della commissione Gratteri che ha elaborato proposte tecniche per migliorare il servizio Giustizia. Che fine hanno fatto?
Nessuna delle norme è stata recepita dal disegno di legge, a parte le videoconferenze nei processi. Ma l’obbligo dei 3 mesi, di cui le ho parlato, che è stato discusso in commissione e scartato perché ritenuto dannoso, anche dai componenti avvocati, l’abbiamo ritrovato nella riforma. Se diventerà legge, la Giustizia rischierà la paralisi.