A quanto pare, Nicolas Maduro le negoziazioni le vuole fare solo fuori casa. Ritenuto il mediatore che l’anno scorso ha maggiormente contribuito alla storica firma dell’accordi di pace tra lo Stato della Colombia e i guerriglieri delle Farc, l’ex capo del sindacato dei trasporti pubblici di Caracas, in patria sta smantellando la dinamica dei contrappesi democratici e alimentando un clima da guerra civile. L’immagine plastica del Venezuela di questi giorni la offrono – oltre agli scontri quotidiani che in poche settimane hanno provocato oltre 30 morti – i neonati che dormono nelle scatole di cartone. Perché molti ospedali non hanno i soldi per acquistare culle. Ma anche nella Capitale, Caracas, dove vivono 3 milioni e mezzo di persone su un totale di 31 milioni, la vita è sempre più dura non solo per i nuovi nati. I loro padri non hanno i soldi per acquistare i beni di prima necessità al mercato nero, dato che i commercianti li hanno fatti sparire dai negozi l’anno scorso quando il presidente ha imposto prezzi fissi e bassi contemporaneamente all’aumento smisurato dell’inflazione che ha superato l’800 per cento.
La crisi politico-economica del Venezuela è iniziata ben prima della morte del presidente-comandante Hugo Chávez nel 2013, ma a impedire il tracollo dell’economia venezuelana allora c’era l’argine del prezzo del petrolio ancora alto, di cui il Paese sudamericano è decisamente ricco. Nonostante le promesse, il carismatico leader bolivarista nei suoi 14 anni al potere non era riuscito a diversificare le voci dell’economia, continuando a far affidamento sulla vendita all’estero del greggio. Le conseguenze le ha ereditate il suo delfino, il 55enne Nicolas Maduro. La biografia di Maduro ha ingannato inizialmente molti analisti che, anche in virtù della risicata vittoria alle Presidenziali del 2013, avevano predetto un nuovo corso per il Venezuela post-chavista. Ovvero un cammino più collaborativo con i nemici yankee e aperture all’opposizione.
Se è vero che l’opposizione al bolivarismo venezuelano da parte di Washington si è declinata in modo tale da istigare i distributori di beni primari – tra cui figurano medicine oltreché cibo – a tenerli stoccati nei magazzini piuttosto che venderli a prezzi calmierati, è altrettanto vero che Maduro ha dato alle forze armate sempre più potere, compresa la gestione di energia elettrica e scorte alimentari. L’esercito però non è stato capace di farne buon uso e il sopraggiunto crollo del prezzo del petrolio ha portato al razionamento dell’elettricità, dovendo esserne privilegiata l’esportazione per evitare il default delle casse statali. A causa del razionamento energetico negli uffici pubblici si lavora tre giorni a settimana. Il delfino di Chávez, per continuare ad avere l’acqua in cui nuotare, non ha trovato altro modo che impedire al Parlamento, guidato dal 2015 dal fronte dei partiti di opposizione, di indire un referendum per chiedere elezioni anticipate (il mandato naturale di Maduro scade a fine 2018) e tentare di esautorare il potere legislativo, sempre attraverso la Corte suprema, in mano a giudici eletti dallo stesso presidente. Passo falso dettato dal timore di perdere la poltrona anziché dal desiderio di fare il bene del Paese.
La marcia indietro del Tribunale supremo il 1° aprile è suonata più come una grottesca presa in giro alle orecchie dei venezuelani esasperati dalla fame e dalle pallottole del regime. Le manifestazioni represse dai colectivos, milizie costituite da membri e sostenitori del Partito socialista unito di cui Maduro è il leader, non si fermeranno, a meno che Maduro non torni a fare ciò che gli riuscì a inizio carriera: negoziare. Figlio di una colombiana e di uno dei più noti leader sindacalisti della provincia di Caracas, Nicolas Maduro ha seguito le orme del padre ancora adolescente.
Dopo aver lasciato la guida dei treni ad altri e il sindacato che aveva fondato, Maduro entrò nel partito di Chávez fin dagli albori negli anni 90. Gli ci vollero però una decina d’anni prima di entrare nel cerchio magico del presidente e poi eletto presidente dell’Assemblea nazionale e, nel 2006, ministro degli Esteri, carica che ha mantenuto fino alla morte del Comandante nel 2013 che lo aveva nominato successore in pectore. La sua scalata al vertice della Repubblica federale è stata lenta per poi subire un’accelerazione dopo le nozze con l’avvocata Cilia Flores, 8 anni in più di lui e al secondo matrimonio.
Colei che formò il team di legali che riuscirono a far uscire di prigione Chávez nel 1994 (dopo il tentato golpe di due anni prima) è stata un’altra fedelissima di Chávez fin dagli inizi. Prima di divenire first lady era stata nominata procuratrice generale della Repubblica. Attualmente è deputato e rimane la consigliera più ascoltata del marito. La coppia presidenziale era finita sotto i riflettori internazionali nel 2015 quando l’agenzia antidroga americana (Dea) e la polizia di Haiti arrestarono a Port-au-Prince due nipoti di Cilia, Efrain Campos Flores e Francisco Flores de Freitas, mentre trasportavano 800 chili di cocaina. Efrain Campos Flores è anche figliastro di Maduro che lo ha adottato e cresciuto dopo la morte della madre, sorella di sua moglie. Entrambi i giovani erano in possesso di un passaporto diplomatico. Secondo la magistratura statunitense, il Venezuela è rotta privilegiata del narcotraffico tra Colombia e Stati Uniti. Tra gli alti dirigenti implicati nel narcotraffico ci sarebbero, secondo la Dea, l’ex vicepresidente della Repubblica ed ex presidente del Parlamento, oggi deputato, Diosdado Cabello. Il numero 2 del Partito socialista unito sarebbe a capo del Cartel de los Soles. Un ex poliziotto un tempo vicino a Cabello e fuggito negli Usa avrebbe consegnato alla Dea prove delle sue attività di narcotrafficante. Accuse a cui Maduro reagisce sostenendo che “si tratta di una manovra americana per destabilizzare il socialismo bolivariano e far tornare al potere i fascisti”.