Il battesimo del fuoco è stato inquietante, il seguito si annuncia da brivido: alla prova dei fatti la politica euro-italiana per fermare l’immigrazione dalla Libia sembra la premessa di una catastrofe umanitaria essenzialmente ‘made in Italy’. Questo racconta la sorta di battaglia navale occorsa la mattina del 10 maggio davanti alle coste della Tripolitania. Ha opposto la nave di Seawatch, una Ong umanitaria tedesca, in quel momento impegnata nel salvataggio di forse 600 migranti stipati in un barcone che faceva rotta verso l’Italia; e due motovedette libiche, primo nucleo di una Guardia costiera che Roma sta resuscitando. Una delle due motovedette ha minacciato di speronare la nave di Seawatch, come dimostra il filmato che la ong ha messo in Rete; l’altra ha abbordato il barcone e l’ha ricondotto sulla costa, dove presumibilmente i passeggeri sono stati trasferiti in un ‘campo di detenzione’.
Formalmente le motovedette obbediscono al governo libico, che però è una finzione; di fatto sono la Marina del Viminale, essendo parte della strategia ideata dal ministro degli Interni Marco Minniti per contrastare il traffico di migranti. Iniziativa lodevole, quella italiana, se non fosse che le politiche si giudicano dai risultati, e questi sembrano pessimi. Impedire la partenza dei barconi senza aver organizzato una soluzione alternativa significa chiudere l’unica via di scampo rimasta ai migranti intrappolati in Libia, dai 150 ai 180 mila secondo la stima dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). La gran parte non ha i soldi per tornare indietro al Paese d’origine. Decine di migliaia sono prigionieri di bande armate e trafficanti. Soltanto una piccola quota, seimila, detenuti illegalmente da milizie cosiddette ‘filo-governative’ in condizioni secondo l’Oim “inaccettabili”, ha il privilegio di ricevere ogni tanto coperte e medicine. Altri migranti vivacchiano, precariamente liberi, in attesa di un imbarco. Altri ancora sono in balia di tribù che per secoli, e fino a ieri, razziavano villaggi africani e rivendevano gli abitanti catturati come schiavi ai mercanti del Golfo (l’Arabia saudita ha abolito la schiavitù solo nel 1960); e oggi, tornate all’antica vocazione, in un paio di città del sud organizzano aste pubbliche in cui vanno all’incanto migranti di pelle scura.
Tutto questo è ampiamente confermato da Oim, varie ong, agenzie Onu e documenti raccolti dalla Corte penale internazionale, che potrebbe presto formalizzare le indagini (secondo la procura dell’Aja numerose testimonianze confermano quanto siano comuni “omicidi stupri e torture” e quanto diffuso “il mercato di esseri umani”). Malgrado questo, Roma e l’Unione europea fingono di non sapere quale Cuore di tenebra sia oggi la Libia.
Pretendono anzi di applicare anche in Tripolitania la strategia cui sono ricorsi in precedenza, offrendo soldi e aiuti a governi mediterranei purché fermassero i flussi di migranti. Il problema è che la Libia non è l’Egitto o la Turchia, anzi non è: non esiste più uno Stato, tantomeno uno stato di diritto. Dietro la Guardia costiera c’è soltanto un caos ribollente di 200 mila armati. Dunque che ne sarebbe di quei 150-180mila esseri umani se le motovedette libiche riuscissero a bloccare o almeno a socchiudere la via per l’Italia?
Per sottrarsi a questa domanda Minniti, ma di fatto l’Unione, hanno deciso di nascondere il problema con uno stratagemma semantico. In Libia, dice il ministro degli Interni a Repubblica, ci sono soprattutto migranti ‘economici’, categoria esclusa dalle tutele internazionali: “Perché è evidente che chi, per 10 mila dollari, parte dal Bangladesh, raggiunge in aereo il Cairo o Istanbul e di lì viene preso dai carovanieri per essere condotto prima nel sud del Sahara e poi, a Sabrata e di lì sulle nostre coste con barconi, non sta sfuggendo a una guerra”, dunque non può chiedere di essere accolto come rifugiato politico. Ma è così? In Nigeria, Gambia e Bangladesh chi vive in alcune regioni o appartiene a determinati gruppi etnici o politici ha discrete possibilità di finire torturato o ammazzato.
Inoltre, è ovvio che i migranti finiti in Libia sono molto più poveri di quanto li pretenda Minniti, altrimenti avrebbero comprato il visto in uno tra i consolati europei specializzati in questi traffici. E anche la povertà può comportare condizioni di vita intollerabili, come il ministro dell’Interno scoprirebbe leggendo, per esempio, quanto scrive Human Rights Watch sul lavoro minorile nel Bangladesh.
Se però partiamo dall’idea che quei migranti siano quasi tutte persone avventurose che cercano fortuna in Italia, allora diventa legittimo fermarli e rimandarli da dove sono venuti: e questo è il nucleo della nuova strategia euro-italiana. La Guardia costiera fermerà i barconi e ricondurrà i migranti sulla terraferma, dove troveranno, annuncia Minniti, “campi di accoglienza sotto la responsabilità dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e dell’Oim”, già finanziati dalla Commissione europea con 90 milioni. I campi di accoglienza, “oltre a impedire la vergogna di campi di concentramento gestiti da scafisti”, renderanno “più agevoli le procedure di rimpatrio volontario assistito”, cioè rimanderanno a casa i migranti ‘economici’.
Quel che Minniti omette è che Alto commissariato e Oim sbarcheranno in Libia solo quando potessero operare in condizioni di sicurezza, cioè in futuro imponderabile, comunque lontano; e se anche oggi fossero lì, riconoscerebbero alla gran parte dei migranti il diritto di ottenere la protezione internazionale almeno come “appartenenti a gruppi vulnerabili”, in quanto ostaggi o vittime delle milizie libiche (status che li metterebbe in condizione di chiedere asilo all’Europa). Dunque la sostanza della politica euro-italiana è che i guardacoste di Minniti fermeranno illegalmente i migranti in mare e li deterranno illegalmente, probabilmente fin quando non potranno scaricarli illegalmente in Niger, uno dei 10 Paesi più poveri del mondo. Nel frattempo in Italia continueremo a dibattere sul tema se quelli delle Ong siano o no cinici mentitori che violano la legge.