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Ecco le falsità del leader Pd contro Marco Lillo: non ha mai firmato patti di riservatezza con lui

17 Maggio 2017

Matteo Renzi è un bugiardo, come suo padre. Ieri ha detto che “Lillo, già in un caso, ha preteso di mettere una clausola di riservatezza così da non dire fuori se e quanto ha dovuto pagare”. Poi, ha parlato di una mia presunta “trasparenza a giorni alterni” per un vecchio pezzo de L’Espresso. Si tratta di un doppio falso: la storia è molto diversa e Renzi lo sa bene. L’Espresso, il 23 dicembre 2008, aveva pubblicato un’inchiesta – sui casi giudiziari del Pd in Italia – a doppia firma: la mia e quella del mio caporedattore. Fu proprio quest’ultimo a chiedermi di occuparmi del partito nelle Regioni del Sud: ne scrissi senza errori e senza problemi legali. Il caporedattore, invece, si occupò del Centro-Nord: trovò una notizia su Renzi, la scrisse e la editò in pagina. Renzi sporse querela. Il collega, molto bravo e solitamente scrupoloso, ammise il proprio errore e mi disse: “Tu non c’entri Marco, riguarda me e me ne occupo io”. Pochi mesi dopo, me ne andai e partecipai alla fondazione de Il Fatto. Non seppi più nulla di quella vicenda e non me ne preoccupai più perché, per compiere il reato, ci vuole il “dolo” e io non ero stato responsabile neppure di una “colpa”, visto che avevo zero possibilità di verifica e di incidenza su un articolo del caporedattore centrale del giornale in cui ero redattore ordinario. Nel 2012, mi chiamarono i carabinieri per farmi accettare la remissione di querela di Renzi. Renzi, cioè, mi fa sapere che vuole mollare la lite e mi chiede: accetti? Io dico sì e firmo solo quel foglio. Nessuna transazione tra me e Renzi, nessun patto di riservatezza con lui. Solo oggi ho scoperto che L’Espresso gli ha pagato 22 mila e 500 euro per salvare non me, ma il caporedattore (oggi vicedirettore di Repubblica). E che Renzi, per mettersi in tasca i soldi, ha accettato un patto di riservatezza che ora sta di fatto violando, anche se il suo amico Carlo De Benedetti non se ne lamenterà. Lo fa per infangare me con una balla: il patto è tra lui e la società di De Benedetti, non con me. Io non ho firmato patti né li ho pretesi per coprire un mio presunto errore che non c’è mai stato. Il punto è che Renzi lo sa bene: perché ne parlammo quando ci sentimmo la prima volta al telefono nel 2012. E io, da qualche parte, conservo anche la registrazione di quello e di altri colloqui.

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