Si avvicina il XXV anniversario della strage di Capaci che causò la morte di Giovanni Falcone. Inesorabile, comincia l’appropriazione indebita della sua figura. Silvio Berlusconi, in una lunga intervista del 15 maggio al direttore del Foglio, non ha resistito alla tentazione. E si è prodotto in alcune sorprendenti affermazioni.
Sostiene B., ad esempio, che “Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”. Sembrava invece che le sue preferenze volgessero verso i giudici come Vittorio Metta, quello del lodo Mondadori. Sostiene ancora B. che “al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Ma non risulta da nessuna parte che Falcone fosse un sostenitore delle leggi ad personam e men che mai un fanatico assertore della difesa non solo “nel” ma “dal” processo. Quanto poi all’idea della “separazione delle carriere” che B. attribuisce a Falcone, spiace rilevare che il magistrato parlava di separazione delle funzioni, cosa ben diversa. Un “uomo libero” come lui (così con ragione lo definisce B.) non poteva accettare un pm dipendente dal potere esecutivo, ciò che invece logicamente e inevitabilmente consegue ovunque vi sia separazione delle carriere.
Secondo B. quello di Falcone è stato “uno strano destino”, perché è diventato “un’icona della sinistra giustizialista, esattamente quella che da vivo lo combatté in ogni modo”, per “bloccarne la nomina alla Superprocura Antimafia”. Senonché, il modo decisamente più aspro e selvaggio per combattere Falcone su questo versante fu quello escogitato dal Giornale di Napoli diretto da Lino Jannuzzi, che in un articolo del 29 ottobre 1941 definì Falcone e De Gennaro (rispettivamente candidati alla Pna e alla Dia) “i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia… una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento”. Addirittura i protagonisti della lotta alla mafia vengono accomunati ai mafiosi: “Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due ‘Cosa Nostra’, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”. E questo Jannuzzi è lo stesso – proprio lo stesso – che diventerà senatore nella XIV e XV Legislatura, sempre sotto le insegne berlusconiane.
E non è tutto. Una furiosa campagna di stampa si era scatenata negli anni Ottanta contro Falcone e il maxi-processo, il capolavoro investigativo-giudiziario che stava producendo l’inedito risultato di porre fine alla vergognosa impunità di Cosa Nostra. Dal diluvio di insinuazioni e accuse, ecco alcune “perle”. L’attacco si indirizza dapprima contro i “pentiti”, definiti “avanzi di cosca”, “arnesi processuali di epoche lontane e oscure”. Si sostiene che “il pentitismo meritava un uso più intelligente” e che “l’apparato giudiziario non è stato all’altezza della straordinaria occasione” (così Salvatore Scarpino sul Giornale nel 1987). I processi di mafia vengono definiti “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”. E ci si chiede “se è stato opportuno seguire la strada dei maxi-processi, estremamente utili ai fini spettacolari, ma dannosi ai fini di giustizia” (così Guido Lo Porto sul Giornale di Sicilia – 1987).
I giudici del pool vengono sostanzialmente accusati di collateralismo con i “comunisti”, che “mirano a controllare l’antimafia e appoggiano a spada tratta i magistrati-personaggio della cordata Falcone” (così Marco Ventura sul Giornale nel 1988). Il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme… un meccanismo spacciato come giuridico”, ma utilizzato ad altri fini “dai giudici capitanati da Falcone”. I quali vengono indicati come artefici di un “ormai diffuso clima maccartista” a Palermo, per cui costituirebbero “un lampante pericolo non solo di condizionamento giuridico ma ancor più di condizionamento politico” (così Ombretta Fumagalli Carulli sul Giornale nel 1988).
Come si vede, nel florilegio di citazioni compare spesso il quotidiano dal 1979 proprietà della famiglia Berlusconi. Mentre Lo Porto e la Fumagalli come parlamentari faranno poi parte della maggioranza berlusconiana. Lo Porto diverrà anche sottosegretario alla Difesa nel governo Berlusconi nel 1994. E ciò dopo che la furibonda campagna contro Falcone lo aveva azzoppato, cancellando il pool e azzerandone il metodo di lavoro vincente. Dunque, davvero uno strano destino quello di Falcone: ma non nel senso teorizzato da Berlusconi.