Il dilemma dei Cinque Stelle è semplice: hanno un personale politico così poco esperto che per essere credibili come forza di governo devono coinvolgere tecnici di spessore. Ma gli esperti hanno tre difetti: 1) se sono bravi, di solito hanno già collaborato con la politica e quindi hanno un’etichetta di partito che li rende incompatibili col M5S 2) se sono politicamente “vergini” tendono a essere troppo fumosi e poco praticabili (vedi Domenico De Masi) 3) gli stessi leader dei Cinque Stelle non hanno le competenze per distinguere i bravi dai ciarlatani, i rigorosi (l’immunologo Guido Silvestri) da aspiranti guru o ciarlatani in cerca di un pubblico. Se per una serie di coincidenze il tecnico individuato è adeguato al ruolo – Marcello Minenna assessore a Roma – si pone subito il problema che la sua competenza lo rende non controllabile, il rapporto è troppo squilibrato, l’asimmetria di competenze indebolisce il ruolo della dirigenza politica.
Questi problemi si notano anche nell’elaborazione del programma: invece di sviluppare punti di vista autonomi sul Paese e sui grandi dossier, i Cinque Stelle votano proposte “chiavi in mano” di altri. Un esempio: la linea sul trattato commerciale Ttip e la globalizzazione l’ha data Monica Di Sisto, un’attivista anti-Ttip.
L’alternativa alla dipendenza dai tecnici sarebbe trasformare il Movimento in un partito vero, dotarlo di un think tank interno, raccogliere richieste ed elaborare politiche. Ma questo sembra incompatibile con la democrazia diretta online. Il rischio è che un governo Cinque Stelle possa contare solo su due tipi di ministri: politici impreparati o tecnici preparati ma politicamente poco omogenei, quindi poco legittimati e a costante rischio epurazione.
Per superare questi limiti sarà decisivo alzare drasticamente la qualità degli eletti nel prossimo Parlamento, affinando la selezione. È una svolta necessaria anche se il M5S resterà all’opposizione.