Nella drammatica procedura di vendita dell’Ilva di Taranto il peggio sembra essere davanti. E non solo per le migliaia di esuberi in arrivo. La gara indetta dai tre commissari governativi, Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi si è conclusa venerdì con la preferenza per la cordata Am Investco Italy (Am), formata dal gigante europeo ArcelorMittal (85%) e dall’italiana Marcegaglia (15%). Ha superato ai punti AcciaItalia (AI), messa in piedi dall’indiana Jindal con Giovanni Arvedi, la Delfin di Leonardo Del Vecchio e la pubblica Cassa depositi e prestiti. ArcelorMittal ha vinto nonostante ad aprile l’Antitrust Ue abbia avvisato il governo italiano che il gruppo rischia una stangata in caso di acquisizione dell’Ilva. I commissari hanno però ottenuto garanzie vincolanti su Taranto. L’aggiudicazione spetta al ministero dello Sviluppo, che deciderà a breve.
Ieri davanti ai leader sindacali – convocati dal ministro Carlo Calenda – i commissari hanno svelato l’entità degli esuberi: sui 15mila dipendenti totali, il piano di ArcelorMittal ne prevede 4.800 dal 2018, che saliranno a 5.800 nel 2023. Jindal, invece, parte da 6.400 esuberi subito per calare a 3.200 nel 2024. “Numeri inaccettabili” per i sindacati. “Nessuno ci ha mai coinvolti nelle valutazioni dei piani industriali e ambientali”, attacca Maurizio Landini (Fiom).
La mancanza di trasparenza è preponderante. ArcelorMittal promette di portare la produzione dalle attuali 6 milioni di tonnellate annue a 9,5 importando lingotti da laminare (le “bramme”) prodotti dallo stabilimento di Fos (Marsiglia), storico rivale dell’Ilva, e con la normale produzione alimentata dagli altiforni a carbone. Jindal punta a 10-11 milioni di tonnellate grazie al pre-ridotto, semilavorato con cui si può colare acciaio senza bruciare carbone e con impatto ambientale minore. Stando a quanto filtra, la prima ha vinto soprattutto per il prezzo (1,8 miliardi) e perché promette di coprire i parchi minerari, da cui si alzano le poveri che uccidono i Tarantini. Eppure qualcosa non torna. Nelle scorse settimane sulla scrivania dei commissari è finita la relazione chiesta ai tecnici sui piani industriali e ambientali presentati dalle due cordate, di cui il Fatto è in possesso. Emerge una stroncatura totale di quella che ha vinto, cioè Am Investco Italy.
Si parte dagli investimenti. Per i tecnici quelli previsti sono “incoerenti” con i volumi di produzione dichiarati. Nel piano di riaccensione degli altiforni (Afo), per esempio, non è menzionato il rifacimento dell’Afo2, per cui servirebbero 115 milioni. Ha vita residua al massimo fino alla fine del 2018 ma non compaiono neanche i 20 milioni necessari per estenderla. Il riavvio dell’Afo5 dovrebbe invece avvenire nel 2023. “Con questi due altiforni fermi – spiegano i tecnici – non si possono garantire 6Mt/anno di acciaio prodotto in loco (Taranto, ndr) dal 2018 al 2023”, come promesso. Anche perché le risorse per il rifacimento di Afo1 non risultano “adeguate”: ci sono 45 milioni di euro per 3 anni, ma ne servono 95. L’impatto sull’occupazione, poi, è notevole: “L’assenza di Afo2 comporta un esubero di circa 2.000 persone rispetto a quanto indicato nel piano”. Problemi anche sulla qualità della produzione: “Il documento non prevede investimenti sulla riattivazione della linea di produzione dei tubi”. E questo scenario “non è compatibile con i livelli di produzione di acciai di elevata qualità dichiarati”.
Va peggio sul lato commerciale. Per i tecnici, infatti, importare bramme da fuori “comprime la marginalità di Ilva (i profitti, ndr) che è data appunto dal produrre bramme non dalla rilaminazione”. Questo obiettivo “è incorente con l’autonomia che si dice di voler assicurare a Ilva, perché non può risultare autonomo un soggetto che dipende funzionalmente per più del 25-30% da bramme prodotti da terzi”. Per Acciaitalia (Jindal & Co.) i giudizi sono opposti: non ci sono appunti critici rilevanti sul suo piano, che punta a spegnere l’Afo2 dopo averne prolungato la vita residua al 2022, quando verrà riattivato l’Afo5 e spento il complesso di “Taranto1 (gli Afo 1,2 e 3)” per introdurre il sistema ibrido: è “cadenzato in modo coerente” e la “tempistica ipotizzata è tecnicamente plausibile e valida”. Niente rilievi negativi sulle risorse.
Nelle analisi dei tecnici la cordata guidata da ArcelorMittal esce male anche sul lato ambientale. “Il piano – si legge – è coerente con quello del ministero dell’Ambiente ma senza miglioramenti”. Promette poi di investire 25 milioni in salute, sicurezza e ambiente, contro i 150 di Acciaitalia e non menziona l’impatto dell’importazione delle bramme da fuori. Tutte le tecnologie proposte puntano “ad abbattere l’emissione di anidride carbonica, un aspetto importante ma che non ha effetto sulla diminuzione di gran parte dei fattori inquinanti pericolosi e di allarme sanitario/sociale derivanti dall’uso del carbone”. L’impegno più forte è quello di coprire tutti i parchi minerari primari secondo il piano di Ilva già approvato dal ministero (AcciaItalia vuole modificarlo per coprirli solo in parte, entro il 2021) ma promette di completare l’operazione nel 2023, cioè in 5 anni. Secondo il piano originario ne servivano al massimo due.
di Francesco Casula e Carlo Di Foggia