Raramente il Plenum del Csm vota all’unanimità, ma ieri è accaduto. Togati e laici di tutti gli schieramenti hanno stroncato la norma del governo Renzi che obbliga gli investigatori della polizia giudiziaria a raccontare le indagini ai superiori, pur essendo alle dipendenze dei pm. Una norma (articolo 18 del decreto 177 del 2016) inserita sottobanco nella riforma della Guardia forestale, che è stata accorpata all’Arma dei carabinieri.
La delibera della Sesta commissione, relatori il presidente Ercole Aprile e i consiglieri Antonello Ardituro e Luca Forteleoni, evidenzia il rischio che l’obbligo favorisca fughe di notizie istituzionali, essendo i capi degli investigatori collegati all’esecutivo: la polizia dipende dal ministero dell’Interno, i carabinieri da quello della Difesa, la Finanza da quello dell’Economia. Il testo, anticipato nei giorni scorsi, sottolinea il pericolo che le informative siano “portate a conoscenza di soggetti esterni all’indagine, in rapporto di dipendenza organica dalle articolazioni del potere esecutivo”.
Il Csm ha rilevato una serie di problemi “pratico-applicativi” nelle Procure e “ha preso atto”, con le audizioni, che alcuni uffici, capofila la Procura di Torino guidata da Armando Spataro, hanno dato alla norma una interpretazione “riduttiva”, facendo prevalere il principio della segretezza delle indagini sull’obbligo di informare i vertici. D’altronde, secondo la Costituzione, la polizia giudiziaria dipende dal pm. Altre Procure, invece, erano in attesa di una parola chiarificatrice del Csm, che ieri è arrivata: il governo dovrebbe fare marcia indietro e prevedere “un potere di segretazione del pm anche rispetto alla scala gerarchica della polizia giudiziaria”. Cioè gli investigatori devono riferire “compatibilmente” con gli obblighi del codice di procedura penale sul segreto e non “indipendentemente”, come prevede la riforma Renzi.
Nel dibattito c’è stato un momento di subbuglio e il vicepresidente Giovanni Legnini si è visibilmente alterato per l’intervento di Pierantonio Zanettin, consigliere laico di Forza Italia che ha associato questa norma all’inchiesta Consip e alle “talpe” che hanno informato i vertici della centrale acquisti dell’indagine che coinvolge l’imprenditore Alfredo Romeo e Tiziano Renzi, padre dell’ex premier: “Il 9 agosto 2016 il capitano Scafarto per sms scrive al colonnello Sessa, indagato per depistaggio: ‘Abbiamo fatto una stupidaggine a dirlo al capo’… È assai singolare che, solo pochi giorni dopo le preoccupazioni espresse dagli ufficiali del Noe, il 19 agosto, il governo abbia varato” la norma incriminata. Qualche mese dopo i vertici di Consip saranno informati dell’inchiesta e il ministro renziano Luca Lotti, il comandante dei carabinieri Tullio Del Sette e il generale Emanuele Saltalamacchia sono ora indagati per favoreggiamento e rivelazione di segreto. “Contesto categoricamente qualsiasi connessione tra l’iniziativa presa dal Consiglio” e il caso Consip, ha ribattuto Legnini.
Nei giorni scorsi con il Csm aveva polemizzato il capo della polizia Franco Gabrielli, che aveva detto: “Io servo lo Stato, non il governo” e aveva ricordato che, di fatto, i vertici delle forze di polizia sono sempre stati informati ma ora la cosa è stata formalizzata e disciplinata. “Mi dispiace che abbia letto la delibera in chiave di sfiducia”, ha risposto ieri Legnini, “al contrario riconfermiamo la nostra fiducia, consapevoli che la norma controversa carica di ulteriori oneri e responsabilità i vertici dei corpi di polizia”. Ma per il Csm la norma favorisce le fughe di notizie: le informazioni “senza alcun filtro o controllo del pm” e a favore anche di “soggetti che per la loro posizione apicale vedono stretto il rapporto di dipendenza organica” dal governo “appare non essere in linea con le prerogative riconosciute” al pm dalla legge.