In principio fu Bryan Roy, che un giorno di novembre si ritrovò su un aereo per Foggia. Poi vennero la cessione di Bergkamp e Jonk all’Inter e quelle in provincia di Kreek e Vink.
Era l’inizio degli Anni 90, i club morivano di invidia davanti alla scintillante bellezza dei tulipani milanisti e Carmine Raiola detto Mino era l’uomo adatto per portare un po’ di Olanda nel Belpaese. Nato nel 1967, dopo nemmeno 12 mesi di vita fu strappato alla sua Nocera per trasferirsi ad Haarlem, 20 chilometri da Amsterdam.
Dall’officina il padre passò alla piastra dei panini, poi aprì una pizzeria. Ai tavoli di quel locale, oggi un ristorante di lusso, si dava da fare anche Mino, che dopo la maturità classica si era iscritto a Giurisprudenza. Ma la sua passione era il calcio: dopo una breve parentesi da calciatore, si reinventò direttore sportivo della squadra della sua città. Aveva una dote: capiva in anticipo dove andava il mondo. Nel pallone tutto era divenuto più professionale, servivano nuove figure e lui divenne un mediatore. Mentre la gente si chiedeva da dove fosse saltato fuori, il suo giro cresceva. C’era sempre la sensazione che la patacca fosse dietro l’angolo, eppure fare affari con Raiola conveniva a tutti.
Ambizioso, capace di farsi capire in 7 lingue, si diede sin da subito una vocazione internazionale, ma inevitabilmente concentrò i suoi sforzi sull’Italia. Il primo grande colpo fu Pavel Nedved, spedito alla Lazio di Zeman, con cui ebbe sempre un rapporto controverso. Raiola non è tipo che lasci indifferenti. Sarà il look oppure quella pancia esibita come un trofeo, ma la prima impressione di lui difficilmente è positiva. La leggenda Alex Ferguson diffidò e non ha ancora smesso di disprezzarlo, Ibrahimovic invece capì presto che quello era il suo uomo. Rimarrà nella storia, come raccontato nella splendida biografia Io, Ibra, il giorno del rendez-vous tra i due. “Dovrebbe essere un agente quella specie di gnomo ciccione?” si chiese il fuoriclasse svedese. L’istinto gli disse di affidarsi a quel “meraviglioso idiota” e fu la fortuna di entrambi.
Ibrahimovic è “raiolismo” allo stato puro: in otto anni cambiò sei squadre, senza smettere di arricchire il proprio fatturato e quello del suo rappresentante che, in occasione del passaggio al Barcellona, mise in tasca oltre un milione di euro. Un capolavoro, finché il ragazzo ha collaborato, è stata anche la gestione di Balotelli, che a Liverpool firmò un contratto da 6 milioni di euro a stagione. In Inghilterra Raiola voleva portare anche Hamsik, che però aveva altri progetti di vita. Rimase a Napoli e i due ruppero: fu una delle poche volte in cui le cose non andarono come Mino esigeva. Tratta con tutti Raiola e talvolta apre qualche canale privilegiato, come quello che la scorsa estate ha portato a Manchester Ibra, Mikytharyan e Pogba. Per la cessione dell’ex juventino, sulle cui modalità rimangono ancora parecchi interrogativi, si dice che il procuratore abbia incassato 48 milioni di euro tra la cifra corrisposta dalla Juve e quella dello United. Mino Raiola è una persona, ma fattura come un’azienda.
Tra fondi di investimento che comprano e rivendono i calciatori, le famigerate TPO, e agenti onnipotenti come il portoghese Jorge Mendes, il campano è un inguaribile innovatore del sistema. Prende i calciatori migliori, da giovani, e ne fa esplodere l’appetibilità mediatica, tiene costantemente sotto pressione le società e intanto alza la posta grazie al suono di sirene lontano, spesso addestrate ad arte. Quando il contatto è serio e decide che un giocatore deve essere ceduto, i club possono mettersi il cuore in pace e sperare di massimizzare il profitto. Ancheggiando sull’orlo dei regolamenti, Raiola non smette di spingere più in là le frontiere del diritto calcistico e a ogni trattativa passa all’incasso.