C’è un dato, sin qui piuttosto ignorato, che rende la catastrofica sconfitta elettorale di Theresa May dell’8 giugno ancora più beffarda: i Conservatori hanno ottenuto il 42,4% del voto popolare, miglior risultato dal 1983. La vera sorpresa è stato quindi l’exploit dei laburisti di Jeremy Corbyn, mentre gli altri partiti sono stati pressoché prosciugati, come indica la disfatta dei Liberaldemocratici di Nick Clegg, europeisti dichiarati, ma anche della loro antitesi, i nazionalisti dello Ukip.
L’analisi dei flussi socio-demografici del voto, realizzata dal Financial Times, indica che i Conservatori sono stati puniti dall’elettorato urbano che al referendum aveva votato per restare nella Ue, oltre che nelle aree del paese con contesti multiculturali ed elettori più istruiti. A livello puramente anagrafico, la classe tra 25 e 34 anni è stata quella che ha maggiormente premiato il Labour e punito i Tories. Ma i Conservatori avrebbero subito una lieve erosione anche presso alcuni segmenti della classe media. Il Labour, quindi, malgrado un leader di consolidata storia vetero-marxista, pare aver fatto breccia col suo messaggio redistributivo ma anche mirato a rassicurare la middle class, promettendo di far pagare solo il 5% di “ricchi” e le grandi imprese.
E ora, quindi? Il tentativo di May di creare una gracile maggioranza ottenendo i dieci voti degli unionisti del Nord Irlanda mette a rischio tutto il percorso della Brexit, e al contempo innalza la probabilità di giungere a una hard Brexit traumatica, da paralisi del governo di Londra. Gli unionisti nordirlandesi non vogliono una dogana fisica con la Repubblica d’Irlanda, il che deporrebbe per un esito di soft Brexit, con permanenza nell’unione doganale.
Ma non è solo questo dettaglio, pur se rilevante: la realtà è che in questo Parlamento non esiste una maggioranza favorevole ad una uscita netta e “dura” dalla Ue, così come non esisteva nel precedente. Corbyn su questo tema è da sempre ambiguo, pur preferendo un esito che preservi l’accesso al mercato unico; i conservatori scozzesi parlano di “open Brexit”. Il punto vero, che il tempo che passa non fa che rafforzare, è che decidere un tema così complesso a mezzo di referendum popolare è la via per arrivare al caos.
Non esiste una sola Brexit ma più varianti: difficile credere che l’elettorato possegga gli strumenti per valutarne puntualmente costi e benefici. Assai più probabile che il voto referendario sia stata l’ennesima espressione di disagio socio-economico, dopo molti anni di riduzione del potere d’acquisto degli stipendi ed un welfare ridimensionato da tagli a ripetizione. Il miraggio, evocato da Nigel Farage e rilanciato da Boris Johnson, di 350 milioni di sterline in più a settimana per la sanità pubblica in caso di uscita dalla Ue ed altre menzogne del genere, hanno contribuito alla vittoria del Leave e ad avviare una giostra infernale che minaccia di perseguitare e danneggiare i britannici per molti anni a venire.