Sei qui, ti sei fatto quattro chilometri a piedi sotto un sole cocente. Sei qui e paghi 2 euro una bottiglietta di acqua minerale, 4 una Coca, 6 una improbabile piadina. Sei qui per capire perché almeno 30mila persone sono in fila da ore per assistere alle prove di un concerto. E capisci una cosa sola, che quello che vedi è niente, solo un piccolo prologo di quello che succederà domani, quando a Modena arriveranno 220mila persone. È l’evento degli eventi, il concerto rock più grande del mondo. Numeri da capogiro: 60mila auto, 1000 pullman, 22 treni speciali, un giro vorticoso di affari. A partire dalla stima degli incassi, 12 milioni, e degli investimenti, 10 milioni. Un affare per l’economia della zona (che la Cna calcola in almeno 6 milioni), per gli alberghi, 2 milioni di incassi previsti. Cifre, aride cifre, che però non ci servono per capire perché una umanità di 220 mila anime si appresta a invadere il Modena Park aspettando che su un palco largo più di 150 metri e alto come un palazzo di otto piani appaia lui, Vasco Rossi, Blasco, il Komandante.
“Perché Vasco canta il nostro dolore, lo condivide, è la voce di chi, come me, non ha voce”. Si chiama Mina, viene da Torino col suo fidanzato Andrea. E spiega tutto. Allora è vero quello che Vasco dice: “Alla gente ci arrivi solo se parli da stomaco a stomaco”. Giovanni Bianco vive a Londra, l’ultimo attentato, quello al London Bridge, lo ha visto in diretta. Casa sua è nei paraggi. Non lo spaventa la notizia di una bomba carta esplosa in mattinata nella Scuola della polizia locale. “Ho comprato il biglietto da mesi – racconta –, la paura c’è, ma la voglia di esserci è tantissima. È il più grande concerto di Vasco e dovevo esserci”. Ti giri intorno e vedi centinaia di tende “Quechua”, una specie di cuccia per cani dove ci si sta scomodamente in due. C’è gente accampata qui dalla fine di maggio. L’obiettivo, ci spiega Roberto, è conquistare i primi posti davanti alle transenne. Settimane così, con i bagni chimici lontani, la mancanza di docce e i mille modi per arrangiarsi e lavarsi. Sergio Vistocco, “organizzatore di eventi molto conosciuto su Facebook”, viene da Avellino. Stringe mani e riceve complimenti. “Studio Blasco da tredici anni, so tutto. Nel 2007 ho scritto un libro, ‘Vasco santo ed eroe’”. Anche lui si è arruolato nella grande Armata del Komandante. Un esercito che indossa con orgoglio cappellini verde militare e t-shirt con le frasi delle canzoni di Blasco. “Tutto in equilibrio sopra la follia”. E chi non ha magliette “parlanti”, usa altro. Una ragazza mostra fiera il suo reggiseno bianco: “Fammi godere”, ha scritto col pennarello.
Un signore di Pisa, capelli color della cenere lunghi raccolti in un codino, gira venerato come un ayatollah ai tempi della rivoluzione in Iran. Ha 67 anni e quella di domani sarà la sua 134esima presenza ad un concerto della rock-star. “Lo vedi – mi dice Paolo che viene da Matera – questo è Vasco, chi unisce più di lui? Il Papa, ma i suoi raduni sono gratis, qui paghiamo un biglietto che va da 70 a 100 euro”. Unire, bella parola, un’utopia nell’Italia dei rancori. Perché un uomo, un artista nato 65 anni fa, una sorta di Jeremy Corbyn del rock, riesce a mobilitare donne e uomini di generazioni, latitudini, posizioni sociali così diverse? E lo fa con una forza attrattiva che nessuno in Italia, meno che mai un leader politico, riesce neppure ad immaginare? Ci viene in soccorso di nuovo Mina: “Perché nelle sue canzoni c’è il racconto della nostra vita di merda, dei nostri sentimenti, delle delusioni, delle sconfitte… C’è tutto”. E insieme al suo gruppo di amici ci fa una rapida carrellata. “Essere libero costa soltanto qualche rimpianto… non è vero che c’è sempre da scoprire e che l’infinito è strano, ma per noi, sai, tutto l’infinito finisce qui…”.
Il popolo di Vasco non è semplicemente pubblico, è parte, attiva e non secondaria, dello spettacolo. Una vera comunità, un insieme di emozioni, sentimenti, speranze che domani sera si fonderanno con le parole e i suoni di canzoni sentite altre mille volte. E pensare che il primo album di Vasco del 1978 si intitolava “Ma che cosa vuoi che sia una canzone”. Quasi a voler sminuire, minimizzare, smitizzare. Ma al Komandante piace prendersi gioco delle parole e della vita. “Colpa d’Alfredo”, è un vecchio brano che parla di un amore di periferia ferito. Una “stronza” abbandona uno che abitava “fuori Modena, Modena Park, ti porterei anche in America… ho comprato la macchina apposto… e mi ero già montato la testa”. Era il 1980, un secolo fa, Vasco lo aveva giurato ai suoi compaesani di Zocca (meno di 5 mila anime sulle montagne modenesi): “Io sono un Mick Jagger nato in Italia”.
Non si era “montato la testa”, aveva ragione. E domani canterà “fuori Modena, al Modena Park”, per il “suo popolo” nel più grande concerto della storia del rock.