Lavorare con la Guardia di Finanza in redazione senz’aver evaso un euro di tasse né essere accusati di averlo fatto è già piuttosto seccante. Ma leggere nel decreto di perquisizione della Procura di Napoli che essa “sorge sulla base di una denunzia-querela dei difensori di Romeo Alfredo, in cui si lamenta la pubblicazione di notizie coperte da segreto che peraltro avrebbero natura diffamatoria per la posizione del loro assistito”, non sappiamo se faccia più ridere o più piangere. Il preclaro denunziante che il noto criminale Marco Lillo avrebbe diffamato pubblicando atti della Procura che ci perquisisce è quel Romeo che la Procura che ci perquisisce ha fatto arrestare quattro mesi fa per corruzione e indagato un anno fa per associazione per delinquere e concorso esterno in associazione camorristica. Cioè: quello che per i pm di Napoli è un ladro e un amico della camorra chiede da Regina Coeli alle guardie di punire il giornale che ha pubblicato le loro carte che gli danno del ladro. E le guardie eseguono. In trent’anni e passa di cronaca giudiziaria ne avevamo viste tante, ma questa ci mancava. L’accusa di aver diffamato Romeo potrebbe sussistere se avessimo pubblicato atti falsi, ma in quel caso i pm non potrebbero procedere per rivelazione di segreto d’ufficio. Siccome abbiamo pubblicato atti veri, non può sussistere alcuna diffamazione. Ergo la perquisizione “sulla base di una denunzia- querela dei difensori di Romeo” non sta né in cielo né in terra.
Ciò che la Procura non può dire è che della reputazione di Romeo non gliene può importare di meno, altrimenti non l’avrebbe fatto arrestare. Ciò che cerca, dietro il paravento di Romeo, è la nostra fonte. Ma non può ammettere neppure questo: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha diffidato più volte gli Stati dal tentare di risalire alle fonti dei cronisti attraverso perquisizioni, intercettazioni, incriminazioni per reticenza. Tutte violazioni dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come ha confermato la Cassazione. Eppure quella norma ieri è stata ripetutamente violata dai pm di Napoli, a maggior ragione in quanto Lillo non è neppure indagato, con un mega-blitz che nemmeno per la camorra: una ventina di militari sguinzagliati fra Roma, Padova e la Calabria (dove il putribondo figuro tenta di farsi qualche giorno di ferie).
E precisamente: nella sede del Fatto, nelle case romana e calabrese di Lillo, in quella dell’ex moglie, in quelle del padre 96enne a Roma e in Calabria, nella tipografia di Grafica Veneta a Trebaseleghe. Perquisizioni, ordini di esibizione, cassetti scassinati, computer e telefonini sequestrati ‘ndo cojo cojo, persino all’ex moglie e alla compagna giornalista di Lillo e financo all’art director e responsabile grafico del Fatto, Fabio Corsi. Quando viene perquisita una persona, tipo un giornalista, che può opporre il segreto professionale, per evitare atti invasivi come il sequestro indiscriminato degli strumenti di lavoro e di comunicazione, è obbligatorio per legge l’“ordine di esibizione”. Lillo non era a Roma, ma ha acconsentito via telefono (quello del figlio: il suo l’avevano sequestrato) a esibire tutti i file richiesti. Ma i finanzieri hanno avuto l’ordine di sequestrargli tutto indiscriminatamente, aggirando la legge con la scusa che poteva esserci “altro”. E tanti saluti al suo diritto di tutelare le fonti, senza che neppure un giudice l’avesse sollevato dal segreto, imponendogli di rivelare il suo informatore per cause di forza maggiore. Tutte queste forzature sono state verbalizzate dal nostro avvocato, che presenterà ricorso contro questa catena di atti abnormi e illegittimi.
Ora però è il momento di uscire dai tecnicismi, che pure ci pare doveroso far conoscere ai nostri lettori, e alzare lo sguardo. Non siamo né il primo né l’ultimo giornale a pubblicare notizie segrete e a subirne le conseguenze. Anzi, ce la siamo proprio andata a cercare: quando si tocca il più intoccabile degli intoccabili – Matteo Renzi – bisogna prepararsi a tutto. Anche a due inchieste parallele e invasive quant’altre mai, a caccia delle fonti (solo le nostre) che ci hanno svelato notizie segrete (ma anche, come vedremo, non segrete). Non solo quella della Procura di Napoli, ma anche quella dei pm di Roma, che per la prima volta nella storia hanno indagato un pm, Henry John Woodcock, e la sua compagna, Federica Sciarelli, sequestrandole telefono (Lillo ha già dichiarato, e metterà a verbale quando sarà sentito, che le sue fonti non sono loro: altrimenti non avrebbe parlato al telefono neppure con la Sciarelli). Pare che le due Procure si siano convinte di una macchinazione eversiva di uomini del Noe tramite fughe di notizie sull’inchiesta Consip (quella su tangenti, traffici d’influenze, appalti truccati e soffiate istituzionali agli indagati: tutti fatti che non sono minimamente in discussione) per colpire presunti nemici interni: il comandante dell’Arma, generale Tullio Del Sette (che a fine anno, quando il Fatto parlò per primo dell’inchiesta, doveva essere confermato dal governo); e il servizio segreto civile Aisi (con accuse false a vari 007). Così giustificano l’incredibile spiegamento di forze, mai usato da alcuno per una fuga di notizie, né da loro per le soffiate che hanno rovinato l’inchiesta principale, quella su appalti truccati e tangenti pagate o promesse.
Se i telefoni di Lillo, della sua compagna e di quella di Woodcock sono nelle mani degli inquirenti, quelli di babbo Tiziano e del figlio Matteo, ma anche dei generali Del Sette e Saltalamacchia ecc. non sono mai stati sequestrati e i loro uffici e abitazioni non sono mai stati perquisiti. Come se fosse più grave pubblicare notizie su un giornale che avvertire una banda di presunti ladri perché tolgano le cimici, smettano di parlare e trafficare per pilotare il più grande appalto d’Europa.
E di quali notizie segrete stiamo parlando, poi? Quella su cui indaga Roma, che poi scatena il bis di Napoli, è la perquisizione del Noe alla Consip il 20 dicembre 2016, con l’interrogatorio di Marroni che accusa Lotti, Del Sette e Saltalamacchia, indagati subito dopo. Quanto poteva durare il segreto su quel plateale blitz di un manipolo di carabinieri in un ufficio pubblico popolato da decine di dipendenti e funzionari? Se la notizia non fosse uscita sul Fatto il 21 dicembre, l’avrebbe raccontata qualche altro giornale il 22, perché era un fatto pubblico, un segreto di Pulcinella, che fra l’altro non ha danneggiato né avvantaggiato nessuno (gli indagati sapevano già tutto da mesi grazie alle loro fonti istituzionali). E il registro degli indagati, almeno a Roma, non è mai stato top secret, viste le infinite notizie di iscrizioni anche eccellenti pubblicate quasi in tempo reale. Non solo: dell’inchiesta Mafia Capitale sapevano diversi giornalisti molto prima degli arresti, tant’è che avevano già riempito fior di articoli, libri, persino film e fiction. Infatti i due poliziotti indagati per aver avvertito Massimo Carminati furono poi prosciolti perché la notizia era ormai di dominio pubblico. Qualcuno ha mai perquisito giornalisti, fidanzate, stampatori, grafici, fuochisti, macchinisti e ferrovieri per smascherare la fonte? Non risulta.
La Procura di Napoli indaga invece sulla pubblicazione delle due informative del Noe su Consip: quella del 9 gennaio e quella di febbraio 2017. Ma la seconda era stata depositata agli atti dalla Procura di Roma, dunque non era segreta. E la prima, segreta, fu pubblicata da tutti i maggiori quotidiani il 4 marzo, mentre il Fatto una volta tanto la ebbe solo l’indomani: eppure gli unici perquisiti siamo noi. Il Fatto pubblicò la telefonata top secret dei due Renzi, così come un noto settimanale riportò il verbale segreto di Marroni: e gli unici perquisiti siamo sempre noi. Il che ci rafforza nella convinzione che non ci abbiano perquisiti per tutelare l’onorabilità di Romeo, ma per farci sputare la fonte. Cosa che, purtroppo per loro, non possono fare.