Il senso comune vuole che le responsabilità principali della Chiesa sulla pedofilia siano nel coprire i pedofili, nel non denunciarli all’autorità giudiziaria. Questo è avvenuto ed è spiegabile: l’istituzione ha temuto le conseguenze che sarebbero derivate dalla divulgazione della notizia che un suo funzionario aveva molestato bambini innocenti. Chi manderebbe più i propri figli al catechismo dopo aver scoperto tanti casi del genere? Questo ha paventato l’istituzione quando ha coperto o insabbiato. Forse essa ha avuto anche a cuore la sorte del funzionario perverso, il quale, poverino, finito in una situazione difficile, si aspettava legittimamente da quella organizzazione che aveva servito fedelmente di essere aiutato e non denunciato. Quella ecclesiastica, come tutte le grandi istituzioni autoritarie non democratiche e illiberali, ama e tutela prima di tutto il suo buon nome, pensandosi costruita a immagine e somiglianza di Dio e perciò dotata di diritti superiori rispetto a quelli di ogni altra creatura.
Questa è la prima parte della verità, che però va considerata insieme alla seconda: la Chiesa Cattolica non solo ha protetto i pedofili, ma, involontariamente, li ha costruiti. Quando si legge il rapporto dell’avvocato Weber su quel che avveniva nel collegio di Ratisbona il pensiero non può che andare ai racconti dei sopravvissuti dei lager: bambini indifesi, frustati, presi a pugni con anelli pesanti o picchiati con il coperchio del pianoforte sbattuto sulle dita. E poi stupri a ripetizione, violenze che da fisiche divenivano sessuali. Tutto questo a opera di un piccolo esercito di torturatori, di sadici kapò, almeno cinquanta.
È chiaro che qui non si è trattato di un crimine individuale, della perversione di un singolo. Quello di Ratisbona, come i tanti altri emersi in questi anni, era una struttura criminale compatta e efficiente. Tutti i carnefici, sia i violentatori che coloro che assistevano senza reagire e senza denunciare, erano preti, accomunati dalla passione, sadica o solo sessuale, per i ragazzini, ma anche dall’aver probabilmente frequentato, sin dal seminario, luoghi dove i giovani venivano sottoposti a quel genere di iniziazione. E soprattutto dall’aver acquisito la convinzione profonda di essere, in virtù della tonaca che indossavano, superiori alla media degli esseri umani e quindi di poter usare e abusare del prossimo a piacimento.
Quei preti erano da un canto immaturi affettivamente e quindi incapaci di stabilire relazioni amorose paritarie e responsabili, dall’altro assetati di occasioni per manifestare la propria volontà di dominio e di potere appresa con tutta probabilità proprio nei seminari, dopo essere stati a propria volta oggetto di abusi e di violenze ma anche dopo aver imparato, nelle classi e nei corridoi, che Dio ha diviso gli esseri umani in due blocchi: quelli normali e i preti. E che appartenere al secondo blocco significa quasi assomigliare al Creatore. Non sono il sesso e la perversione dei singoli a spiegare Ratisbona e i tanti altri casi simili. Ma la Chiesa e il modo, sempre identico, da secoli, nel quale essa forma i suoi funzionari.
Si dice: cose del genere non possono più succedere. Forse è vero, almeno in Occidente, ma questo avviene perché è cambiata la società, sono cambiate le famiglie, si è affermata una cultura che rende impensabili quegli atti e che, a differenza di quanto avveniva in passato, ascolta e prende sul serio i bambini. È cambiato il mondo, è cambiata molto meno la Chiesa, che continua a formare negli stessi luoghi di sempre, i seminari tutti maschili, il suo clero celibe. E non può cambiare la storia, anzi le storie, di migliaia di abusati che troveranno prima o poi il coraggio di denunciare, la forza di rompere quel muro del silenzio e della vergogna che alcune istituzioni orribili li hanno costretti a costruire. E per la Chiesa saranno guai.