A più di due anni dalla sua presentazione è stata finalmente discussa in Senato la mozione Cinquestelle (a prima firma del senatore Roberto Cotti) che chiedeva al governo di rinunciare ad armare con le bombe atomiche americane B-61 gli F-35 italiani. Richiesta inizialmente sostenuta da un centinaio di senatori di tutti gli schieramenti, Pd compreso, ma alla fine respinta dall’esecutivo e bocciata dalla maggioranza parlamentare. Un esito prevedibile, dati i vincoli imposti dall’accordo di nuclear sharing tra Roma e Washington, tanto più dopo il boicottaggio del trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari. Ragion di Stato che impedisce all’Italia di mettere in discussione anche l’adesione a un programma militare come l’F-35 che altri alleati NATO hanno respinto (è di questi giorni la notizia dell’accordo franco-tedesco per la costruzione di un velivolo alternativo) e che ogni giorno presenta difetti più gravi (l’ultimo è il casco da mezzo milione di dollari che di notte acceca il pilota), costi che aumentano e ricadute economiche assai minori di quelle propagandate. Mentre i responsabili del programma e Lockheed Martin continuano a parlare di un costo ad aereo in diminuzione che presto scenderà sotto la soglia dei 100 milioni di dollari, il Selected Acquisition Report 2016 del Pentagono recentemente trasmesso al Congresso americano mostra che il costo medio di ogni F-35 continua invece a crescere (+7% nell’ultimo anno) e ha raggiunto i 164,6 milioni di dollari (142,5 milioni di euro). Attenzione: si parla sempre di costi di acquisizione, quindi al netto dei costi di upgrade e retrofit, con i quali la cifra raggiunge i 194 milioni di dollari ad aereo, circa 168 milioni di euro. Secondo i calcoli dell’Osservatorio MILeX sulle spese militari italiane, per i novanta F-35 che l’Italia vuole acquistare questo aumento farebbe salire il costo complessivo di acquisizione dai 10,4 miliardi attualmente previsti a oltre 15 miliardi, portando il costo totale del programma a quasi 19 miliardi invece dei 14 ufficiali.
Passando dai costi ai benefici, MILeX dà notizia di un altra clamorosa smentita ufficiale, riguardante uno dei principali cavalli di battaglia della propaganda pro-F35: quello delle ricadute occupazionali del programma, ovvero i famosi 6.400 posti di lavoro ripetuti da anni in tutti i documenti ufficiali e le dichiarazioni pubbliche della Difesa. Come si legge nella relazione della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato 2016, “la stima dei ritorni occupazionali generati da parte dell’Industria, inizialmente pari a 6.400 posti di lavoro, è ritenuta realisticamente realizzabile in 3.586 unità, anche sulla base dell’aggiornamento di Leonardo–DV di febbraio 2017”.
Benefici garantiti, invece, per l’azienda produttrice americana Lockheed Martin, che negli ultimi quattro anni grazie agli F-35 ha triplicato la sua quotazione a Wall Street. Assai meno per Leonardo e le altre aziende italiane che, come si legge nella relazione della Corte dei Conti, hanno finora stipulato contratti di programma per 2 miliardi di euro, a fronte di un investimento pubblico di 3,6 miliardi.