Le pene del referendum del 4 dicembre per Matteo Renzi e per il Pd non finiscono mai. Né politicamente, ma neanche economicamente. Il partito deve ancora pagare i fornitori della campagna referendaria: non pochi spiccioli, ma quasi 8 milioni di euro (per essere precisi 7 milioni e 767mila). La campagna per il Sì è costata ben 14 milioni di euro, se si mettono insieme i quasi 12 milioni a bilancio nel 2016 e i circa 2 milioni spesi dai gruppi di Camera e Senato (come scritto dal Fatto quotidiano). Un salasso fallimentare che ha messo il partito in una situazione di non ritorno, con 9 milioni e mezzo di rosso. E una serie di debiti ancora da saldare.
Tra l’altro, le cose rischiano di essere ancora più complicate di quanto il tesoriere Francesco Bonifazi si aspetta, ovvero di avere un po’ di tempo davanti per saldare i conti. A fine 2016 – secondo il rendiconto chiuso alla fine dell’anno – il Pd aveva 4,607 milioni di debiti con i fornitori da pagare entro fine 2017 (l’anno prima erano solo 837mila). A questi, vanno aggiunti altri 3,160 milioni: il Pd sostiene che li pagherà nel 2018 “se” sarà raggiunto l’accordo con i fornitori. Che potrebbero chiedere anche di pagare subito, non un anno dopo.
Non c’è da stupirsi che al Nazareno si parli sempre più insistentemente di cassa integrazione e licenziamento per i dipendenti: sono 184, tra i quali 24 giornalisti, 56 in aspettativa, 13 in distacco e costano (sempre un dato riferito al 2016) 7,8 milioni di euro.
A rischio, a questo punto, ci sono già gli stipendi, visto che il Pd ha un problema di liquidi. Nel 2017 è finito il finanziamento pubblico ai partiti. Certo, ci sono i soldi del 2 per mille (nel 2016 circa 6,5 milioni): ma quelli non arrivano prima dell’autunno. Altra entrata fissa sono i contributi dei parlamentari: nel 2016, sono stati 6,6 milioni. Che vanno a diminuire, dopo la scissione dem. Neanche le donazioni sono risolutive (nel 2016 sono state 1 milione e mezzo). Il problema liquidità si pone da subito: i soldi del 2 per 1000 arriveranno solo in autunno e quelli che vengono versati da deputati e senatori non bastano a pagare gli stipendi. Il tesseramento è stato anticipato all’estate con la speranza di tirare un po’ su le casse del partito.
Nell’ultimo mese al Nazareno girava un piano messo nero su bianco (e in parte anticipato dal Corriere della sera) secondo il quale dopo l’estate metà dei dipendenti dovrebbe andare in cassa integrazione con lo spettro, dopo, dei licenziamenti collettivi. Per adesso, però, anche il piano è fermo. Un incontro con i sindacati non ha risolto l’empasse. Uno nuovo è previsto per oggi, sempre che non venga fatto saltare all’ultimo momento, come già successo.
In questo clima, non stupisce il fatto che in molti credano che Renzi stia pensando di liquidare il Pd così com’è e di dar vita a qualcosa di diverso: uno scenario sempre smentito ufficialmente dal segretario e dai suoi fedelissimi, ma che potrebbe essere l’ultima ratio in una situazione ormai irrecuperabile. Il tema economico e quello politico vanno insieme: comunque vada, ci saranno le elezioni nei primi mesi del 2018. Come farà un partito ridotto in questo modo ad affrontare le spese e le tensioni politiche di una campagna elettorale? Per molti, le gaffe degli ultimi mesi, come quella che ha portato alla card Facebook criticatissima e poi rimossa sull’immigrazione (che sintetizzava brutalmente un concetto parecchio delicato, “Aiutiamoli a casa loro”) dipendevano proprio dal fatto che non c’è più una struttura. Per questo, molto spazio (ma anche molto lavoro) ha avuto Alessio De Giorgi, il gestore di Matteo Renzi News, colpevole di parecchi scivoloni (tipo quello che equiparava l’ex premier a Totti). Renzi è corso ai ripari e ha rifatto la struttura comunicativa del Pd, affidandola al suo portavoce ai tempi della scalata a Palazzo Chigi, Marco Agnoletti, al deputato delle prime Leopolde, Matteo Richetti e all’agenzia di comunicazione di Bari, Proforma: basteranno a salvare quel che resta della patria?