In Italia, una donna su quattro esce dal mondo del lavoro quando diventa madre. Il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi in Europa e cala di 5 punti dopo il primo figlio, 10 dopo il secondo, 23 dopo il terzo. In pratica, quando una donna resta incinta ha tre possibilità: rinunciare al bambino, rinunciare al lavoro, convincere Piersilvio Berlusconi che è lui il padre.
Le ragioni sono molte: i contratti senza tutele, il fatto che il lavoro domestico sia quasi sempre a carico delle donne pure perché guadagnano il 30 per cento in meno degli uomini, i posti al nido che coprono appena il 18 per cento della domanda e via così. Nel 2014 ci si accorse ad esempio che a Bologna, dove l’offerta di posti nido è la più alta d’Italia, il 77 per cento delle donne tra i 25 ed i 34 anni aveva un lavoro. Mentre a Caserta, dove negli asili c’è spazio per poco più di un bambino su trenta, solo il 31 per cento delle donne era occupata. Renzi promise allora mille asili nido in mille giorni.
I giorni sono passati, gli asili non si sono visti, il segretario Pd torna alla carica varando il Dipartimento Mamme. “La decisione del Pd è situata all’interno di un solco già tracciato”, ha spiegato la responsabile Titti Di Salvo, rivendicando “i provvedimenti approvati durante la legislatura per trasformare la maternità in una libera scelta”. Il Fertility Day? “Ehm, no, le nuove norme contro le dimissioni in bianco e l’estensione del congedo di paternità obbligatorio”. Peccato che le nuove norme contro le dimissioni in bianco siano quelle vecchie – si è tornati al regime varato da Prodi nel 2007 – e che il congedo parentale obbligatorio per i padri, che il governo Monti aveva voluto di un solo giorno, sia stato esteso. A due giorni.
Di più non si poteva obbligare i padri a fare i padri – avranno pensato quelli che hanno pensato il Dipartimento Mamme – perché poi il pannolino puzza e bisogna che la mamma torni a casa a cambiarlo.