Bavaglio

Un emendamento del Pd per mettere a tacere il web: “Cancellare in 5 giorni notizie sgradite”

Ci riprovano - Dem, centristi, FI e cespugli vari ripropongono una norma per far cancellare in 5 giorni le notizie sgradite. Nel 2015 Rodotà la definì “pericolo per la democrazia”

25 Luglio 2017

Per smentire una notizia, il diritto di rettifica non basta più: meglio chiedere direttamente di cancellarla. È la nuova, vecchia idea del parlamento per mettere il bavaglio a internet: una piccola richiesta al Garante della privacy e l’articolo sgradito scomparirà dal web. Dal sito dov’era stato pubblicato, magari pure dai motori di ricerca e dai vecchi archivi digitali: svanito nel nulla, come non fosse mai esistito. Anche perché tante piccole testate locali e blogger indipendenti non avranno le armi (anche economiche) per difendersi e resistere anche alle richieste più irragionevoli.

Proteggere i potenti dai terribili pericoli del web: quello della politica sembra quasi un chiodo fisso. Una norma, grosso modo identica, era già stata introdotta in prima lettura in Senato nella legge sulla diffamazione che porta il nome dell’ex ministro Enrico Costa e da quattro anni fa la spola tra Montecitorio e Palazzo Madama: proprio alla Camera, dopo le tante polemiche e le proteste del mondo dell’informazione, il “bavaglio digitale” era stato soppresso. Stefano Rodotà, peraltro ex Garante della privacy, due anni fa aveva parlato di “diritto all’oblio assoluto e senza contraddittorio”, definendo il provvedimento né più, né meno che “un pericolo per la democrazia”.

I senatori, però, sono recidivi: a distanza di tempo, in commissione Giustizia, è venuta fuori di nuovo la stessa idea, grazie ad un emendamento firmato dalla relatrice del provvedimento, la senatrice Pd Rosanna Filippin, che si è a dire il vero limitata a raccogliere un testo identico presentato da quasi tutti i partiti esclusi Articolo 1-Mdp, Sinistra Italiana e M5S. “Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti – si legge nel testo – l’interessato può avanzare al titolare del trattamento, ivi compreso il gestore del motore di ricerca, motivata richiesta di eliminazione o di sottrazione all’indicizzazione dei contenuti diffamatori o comunque dei dati personali trattati in violazione di legge”. Cambia soltanto il destinatario della richiesta: prima era il giudice, adesso diventa il Garante della privacy. Ma l’obiettivo resta lo stesso: cancellare l’informazione sgradita. Ancor prima che venga stabilito se sia falsa o meno nell’unica sede deputata: un tribunale.

“Siamo alla censura preventiva”, spiega Giuseppe Federico Mennella, segretario di “Ossigeno per l’informazione”, associazione che si occupa delle intimidazioni e minacce nei confronti dei giornalisti italiani. “Nella foga di combattere le fake news, il controllo delle autorità si sta spingendo troppo in là: questa legge propone di rimuovere le informazioni false e lesive, ma chi stabilisce se sono realmente tali?”. Secondo il parere dell’Osservatorio, il provvedimento, se approvato, rischia di avere gravi conseguenze sulla libertà d’informazione e persino sul funzionamento dell’Autorità, che sarà intasata di richieste da politici e aziende varie: “A pagare saranno come al solito i più deboli: non sono preoccupato per i grandi giornali, che sono comunque abituati a lottare contro le minacce dei potenti, ma per le piccole testate o i blogger indipendenti. Loro non hanno le armi per lottare alla pari coi colossi e, di fronte a una minaccia, nella maggior parte dei casi sceglieranno semplicemente di tacere” (Ossigeno ci ha aiutato a raccogliere le storie che leggete qui in basso).

Questo, spiega la senatrice (ex Pd, oggi in Articolo 1) Lucrezia Ricchiuti, “è il cavallo di troia per abbattere il diritto di cronaca, specie in ambito locale, dove le testate online continuano a fornire informazione. Io e Felice Casson abbiamo presentato diversi sub-emendamenti, volti in particolare a prevedere il diritto alla rimozione solo se la falsità della notizia è accertata con sentenza definitiva”.

Che il problema per l’arco parlamentare quasi al completo non sia però tutelare l’informazione, ma semmai ridurre le fonti di fastidio per gli oggetti dell’informazione lo testimonia il fatto che si è scelto di non inserire nel ddl Costa quello sulle “querele temerarie” proposto proprio dalla stessa Ricchiuti: in sostanza, se la denuncia nei confronti del giornalista è palesemente immotivata e pretestuosa (cosa che capita spesso) è chi la presenta che viene condannato a pagare. Ad oggi nel ddl questa fattispecie è citata genericamente – cioè senza spiegare di che si parla e perché – dicendo che “il giudice può condannare il querelante” a un’ammenda da mille a 10mila euro: certo non una cifra che spaventa un’azienda o un capobastone politico locale.

di Marco Palombi e Lorenzo Vendemiale

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