Tale era il sollievo nell’apprendere dalla sentenza sull’ex Mafia Capitale che mai i mafiosi violarono il sacro suolo del Campidoglio, che l’altroieri i consiglieri di tutti i gruppi (eccetto quello pentastellato della sindaca) hanno disertato l’aula mentre Virginia Raggi insigniva il pm antimafia Nino Di Matteo della cittadinanza onoraria di Roma. Forse per non rendersi complici di uno scempio ben più grave e irreparabile: la profanazione del sacro suolo capitolino da parte dell’antimafia.
Ai tempi del terrorismo, andava di moda – a sinistra – lo slogan “né con lo Stato né con le Br”. Ora è stato sostituito con il più attuale “né con la mafia né con l’antimafia”. Le cittadinanze onorarie si sprecano e spesso lasciano il tempo che trovano. Ma questa era un bel gesto per rompere l’osceno isolamento che circonda Di Matteo e far sentire a casa il magistrato più odiato dalla mafia e più isolato dallo Stato (il fatto che indaghi da anni sulla trattativa Stato-mafia, quella che ora sbuca anche in Calabria in versione Stato-’ndrangheta, è solo una coincidenza), nella città dove si è appena trasferito da Palermo dopo la tanto tormentata e a lungo rinviata promozione alla Procura nazionale antimafia. E il fatto che tutti i gruppi consiliari avessero votato a favore del riconoscimento lasciava sperare che, per un momento, avrebbero lasciato da parte gelosie e ripicche reciproche per unirsi intorno a un servitore dello Stato a cui sono grati tutti i cittadini onesti.
Purtroppo, era una pia illusione: tanto erano stati unanimi i partiti al momento del voto, tanto sono stati unanimi nel disertare l’aula per non applaudire Di Matteo e non farsi fotografare accanto a lui. Nessuno, naturalmente, ammetterà che i motivi della propria assenza sono questi: nella patria di Tartuffe (che non è la Francia di Molière, ma l’Italia dell’eterna trattativa), mancano sia la legalità, sia il comune senso del pudore, sia il coraggio delle proprie azioni. Dunque, tutti si nascondono dietro gli impegni precedentemente presi, le mancate comunicazioni del Cerimoniale, il traffico, la siccità, gli incendi e magari pure – pescando dallo scusario dei Blues Brothers – la gomma a terra, la benzina, la tintoria, il funerale della madre, le cavallette.
Ce ne fosse uno che osa dire la brutale verità: meglio stare alla larga da uno che ha fatto condannare tanti mafiosi e loro amici tipo Cuffaro, incazzare Napolitano e Mancino, rinviare a giudizio Dell’Utri, processare Mori e ancora cerca i complici politico-istituzionali delle stragi del 1992-93 e per questo è stato a sua volta condannato a morte da Riina e Messina Denaro. Tant’è che il ministro dell’Interno non di una procura né dei 5Stelle né del Fatto, ma dei governi Letta e Renzi, e cioè Angelino Alfano, gli fece assegnare la protezione del più eccezionale livello e propose financo di mandarlo in giro per Palermo a bordo di un carro armato Lince (quelli della guerra in Afghanistan). Altre spiegazioni del vuoto che s’è creato attorno a lui ancora l’altroieri in Campidoglio non ce ne sono.
A meno che qualcuno non abbia gradito che i 5Stelle gli abbiano chiesto di fare il ministro nel loro eventuale governo: proposta che il pm non ha accolto né rifiutato, dicendosi non contrario all’impegno politico o tecnico-ministeriale dei magistrati (un viaggio – ha precisato – di sola andata) e riservandosi di valutarlo se e quando si verificassero le condizioni, compatibilmente con i tempi del processo Trattativa che vuole prima portare a termine. Questo ne fa un appestato infrequentabile? Parrebbe proprio di no, visto che negli ultimi 40 anni tutti i partiti della Prima e della Seconda Repubblica (salvo rarissime eccezioni) hanno offerto candidature e/o incarichi a magistrati in servizio, molti dei quali in aspettativa e pronti a reindossare la toga.
Solo dal 1992 a oggi, B. offrì invano ministeri a Di Pietro e a Davigo e seggi parlamentari a Squillante (poi si scoprì il perché), Parenti, Papa (poi arrestato), Centaro, Giuliano, Li Calzi, Miller, Bobbio, Nordio e nominò ministri Mancuso, Frattini e Nitto Palma e sottosegretari Mantovano e Caliendo. Il centrosinistra ha Grasso presidente del Senato e ha portato in Parlamento o al governo da Violante alla Finocchiaro, dalla Ferranti a Tenaglia, da Sinisi a Gerardo D’Ambrosio, da Fassone a Casson, da Amendola ad Ayala, da Imposimato a Manzione, da Ferri a Lo Moro, da Carofiglio a Maritati, da Della Monica a Dambruoso, senza dimenticare i governatori regionali Vito D’Ambrosio e Michele Emiliano. Dal che parrebbe di dedurre che nessun partito, esattamente come Di Matteo, è contrario all’impegno politico dei magistrati. Quindi non è per questo che trattano Di Matteo come un paria.
Restano tre sole spiegazioni possibili: il fatto che a offrirgli un ministero siano i barbari a 5Stelle; o le indagini che ha condotto questo pm in 25 anni di carriera, sempre e soltanto contro Cosa Nostra e i suoi complici esterni, e soprattutto il modo in cui le ha condotte, senza guardare in faccia nessuno, cioè come prescrive la Costituzione; oppure ciò che potrebbe fare se mai un giorno diventasse ministro, e cioè riformare i Codici per realizzare il principio costituzionale scritto e contemporaneamente tradito in tutti i tribunali: “La legge è uguale per tutti”.
È tanto difficile dire la verità? Chi fugge dal Campidoglio per non imbattersi in Di Matteo lo ammetta serenamente, così ce ne faremo tutti una ragione. E gli elettori avranno un quadro chiaro per decidere chi premiare e chi punire nelle urne. Quanto alla Raggi, un consiglio. La prossima cittadinanza onoraria la dia a Marcello Dell’Utri o a Bruno Contrada. Vedrà che l’aula sarà gremita, posti in piedi inclusi.