Quel che rimane delle rivoluzioni socialiste o bolivariste o guevariste, comunque le si voglia chiamare, in Centro e Sud America è desolante. Al netto degli “agenti esterni”, ovvero la Cia e gli istituti finanziari internazionali che hanno creato, sovvenzionato e realizzato guerre civili sanguinose, colpi di Stato e crisi economiche, sarebbe un esercizio di ipocrisia dare la colpa solo all’“impero del male” per giustificare il comportamento degli attuali leader della sinistra latinoamericana. Critiche feroci nei confronti dei tre presidenti di sinistra ancora al potere sono state emesse anche da coloro che li hanno votati o ne hanno condiviso il percorso prima di contribuire alla loro elezione. I tre sono: Nicolas Maduro in Venezuela, Daniel Ortega in Nicaragua ed Evo Morales in Bolivia.
Dopo le inchieste della magistratura brasiliana e argentina che hanno svelato il sistema di corruzione anche all’interno del Partito dei Lavoratori del presidente Lula e del Fronte per la Vittoria dell’ex presidenta argentina peronista Cristina Fernandez Kirchner, con il loro coinvolgimento diretto, le speranze di chi vorrebbe un Sud America alternativo al capitalismo nordamericano erano state riposte nei tre leader superstiti. Ma se la crisi umanitaria venezuelana sta mostrando la deriva dispotica e l’insipienza del delfino di Hugo Chavez pur tenendo conto dell’evidente appoggio fornito all’opposizione venezuelana dagli Stati Uniti – appoggio che però non era riuscito a depotenziare Chavez che, anzi, divenne ancora più forte dopo il tentato golpe del 2002 –, i riflettori dei media locali e internazionali ignorano ciò che sta accadendo in Nicaragua e Bolivia.
Nonostante i detrattori del presidente Morales – il primo rappresentante degli indigeni nonché dei raccoglitori di coca ad aver ottenuto la massima carica dello Stato – sostengano che non ci volesse poi molto a migliorare la vita dei suoi cittadini essendo i boliviani talmente poveri che qualsiasi minimo ammortizzatore sociale avrebbe prodotto effetti eclatanti, resta il fatto che milioni di persone hanno perlomeno messo fuori la testa dal pozzo di miseria nera in cui erano condannati a rimanere da un’elite corrotta e rapace.
Certo, non basta, ci vuole tempo. E forse sarà per questo che Morales ha indetto lo scorso anno un referendum per chiedere agli elettori di cambiare il dettato costituzionale e permettergli di correre per la quarta volta alle presidenziali che si terranno nel 2019. Ma il risultato è stato un No che, al di là dello scarso divario percentuale (51,3% contro 48,7%), mostra che in Bolivia la democrazia non è solo un guscio vuoto come in Venezuela e in Nicaragua.
Il cortocircuito però potrebbe ancora innescarsi perché non è detto che Morales rinuncerà davvero, visto che manca ancora un anno e mezzo alle nuove elezioni. Resta il fatto che dopo dieci anni ininterrotti al governo, grazie alle modifiche già portate alla Carta che prevedeva solo due mandati, il leader andino non abbia compreso che suona comunque inopportuno, proprio da colui che ha promosso la democrazia, agire in questo modo.
Un sostenitore di Morales è stato fino ad ora papa Francesco. Il Pontefice però ha tentato più volte in questi ultimi due anni di mediare la crisi venezuelana. Ma si è dovuto arrendere, la settimana scorsa ha criticato ufficialmente il presidente Maduro schierandosi con la procuratrice generale Luisa Ortega Diaz, chavista di ferro che ha sollecitato il tribunale a bloccare l’insediamento dell’Assemblea Costituente. L’opposizione in Venezuela non è solo di destra e altri numerosi chavisti hanno condannato i metodi Maduro.
Tra gli ex ministri di Chavez, che hanno preso nettamente le distanze da tempo, ci sono uomini e donne noti per onestà e dedizione alla cosa pubblica. Si tratta di Jorge Giordani, già ministro della pianificazione, Hector Navarro ministro dell’Educazione, Ana Elisa Osorio dell’Ambiente. Anche due generali di peso hanno abbandonato il presidente venezuelano: Cliver Alcalà e Miguel Rodriguez Torres, a capo dell’intelligence militare per molti anni durante l’era Chavez. Non appena Torres espresse la propria contrarietà alla linea del successore, fu destituito e accusato di essere un agente della Cia ma, se fosse vero, perché non è mai stata aperta un’inchiesta su di lui?
Mentre la bandiera rossa in Venezuela sventola sempre più debolmente, garrisce quella in mano a Daniel Ortega in un Paese, il Nicaragua che, rispetto alla grandezza e ricchezza del Venezuela, è una pulce senza peso geopolitico. Ma se anche fosse ugualmente importante, Ortega non può essere indicato come il depositario dello stato sociale e democratico.
Perché Daniel Ortega, da dieci anni ininterrotti al vertice della Repubblica nicaraguense, non ha mai fatto politiche a favore dei poveri come Lula, Chavez, Zelaya in Honduras (prima di essere deposto nel 2009 dall’unico golpe avallato da Obama e da Hillary Clinton, allora segretario di Stato) e ha usato il suo passato da dirigente sandinista per instaurare una dittatura familiare visto che ha avuto la sfrontatezza di nominare vice presidente sua moglie Rosario Murillo. A denunciarlo non è l’opposizione, di fatto inconsistente, né gli Stati Uniti responsabili della lunga guerra civile che ha devastato il Paese, una delle più terrificanti della storia moderna.
Chi accusa Ortega di avere tradito il sandinismo sono i suoi ex compagni di lotta e di partito come Henry Ruiz, comandante della Rivoluzione, un membro della storica direzione nazionale del Fronte Sandinista (Fsln), una figura quasi leggendaria in Nicaragua perché è stato anche uno dei leader del principale fronte di guerriglia rurale. L’anno scorso, alla vigilia delle elezioni del 6 novembre, aveva chiamato all’astensione.
In un’intervista a Envio aveva detto : “Il Fronte Sandinista non esiste. Oggi, solo un gruppo politico attorno al caudillismo di Daniel Ortega continua a mantenere l’acronimo Fsln, ma non vi è più alcun pathos, non più regole, programmi, dibattiti: non è rimasto nulla. E chi è responsabile di questo? Coloro che sono responsabili per il fatto che Daniel Ortega sta dove si trova, sono prima di tutto coloro che hanno combattuto contro la dittatura di Somoza, tutte le generazioni che per quarant’anni hanno combattuto una dittatura e poi permesso a questo individuo di essere al potere oggi”. Insomma anche la sinistra rivoluzionaria nicaraguense non è riuscita a fare mea culpa e ha dato la stura per ignavia a una dittatura che si fregia della lotta contro l’imperialismo, ma si inginocchia senza vergogna alla logica capitalista più retriva. Secondo Ruiz la grande maggioranza dei giovani, tuttavia, non comprende le conseguenze del genocidio istituzionale praticato da Ortega nel corso degli ultimi 10 anni, dalla riforma della Costituzione alla demolizione delle istituzioni. Ruiz sostiene inoltre che Ortega nel 2006, quando corse nuovamente per la presidenza, non abbia davvero vinto ma che il risultato fosse frutto di brogli per impedire il ballottaggio.
“Appena insediato, nel 2017, Ortega andò subito all’American Institute centrale di Business Administration per incontrarsi con gli imprenditori più importanti del Paese e con loro, decise quale sarebbe stata la politica economica del suo governo; la stessa che ci governa ad oggi e che si basa su quello che ha detto loro quel giorno “Abbiate cura dell’economia e io mi prenderò cura della politica”.
Intanto la riforma agraria è finita ed è ritornata la concentrazione della terra nelle mani di una minoranza. Il latifondismo sta saccheggiando la costa caraibica. Hanno tagliato le foreste per prendere la legna. E dove si sospetta la presenza di oro, la terra è già indicata sulla mappa per darla in concessione alla Gold B2. I poveri che sono rimasti nel Paese continuano a costituire la più grande forza lavoro nel settore informale, in quanto rappresentano quasi l’80% della nostra economia”, conclude Ruiz.
Nel frattempo la Cina sta espandendo la propria influenza nell’area. Il suo modello di comunismo-capitalista è visto con grande favore da tutti i presidenti citati, sia quelli ancora al potere sia quelli che l’hanno perso recentemente come l’ecuadoriano Rafael Correa che però è stato sostituito dal suo collega di partito Lenin Moreno per un soffio.
Il Paese però versa in una crisi economica importante e per Moreno non sarà facile tenere in alto, di fatto unico, il vessillo della sinistra, posto che in Cile la presidente socialdemocratica Michelle Bachelet ha raggiunto il minimo storico di popolarità e alle elezioni di novembre la sfida dovrebbe vincerla, almeno secondo i sondaggi, il miliardario conservatore già eletto nel 2010.